Il fatto che Jacinda Ardern si sia dimessa da Prima Ministra può farci riflettere su alcune caratteristiche dei ruoli di potere, che, come ha detto la leader annunciando le proprie dimissioni, possono lasciare “con il serbatoio vuoto”. Restare senza benzina è uno stato che la psicologia traduce con il termine “ego depletion”: esaurimento del sé. Avviene quando uno stress prolungato nel tempo si trasforma in un malessere patologico, ed è un fenomeno studiato nell’ambito della minaccia dello stereotipo: riguarda l’impatto negativo del dover vestire a lungo dei panni non propri, facendo lo sforzo di adattare costantemente quel che si sente di essere a quel che si sente di dover essere, senza nemmeno rendersene conto.
Questo può succedere quando si porta qualche tipo di “diversità” nelle stanze del potere: lo sforzo di adattarsi alle convenzioni vigenti, spesso nascoste ma pesantemente presenti nelle percezioni e nei comportamenti, assorbe energie in modo continuativo e sotterraneo, depauperandone le riserve già messe a dura prova da un ruolo di responsabilità.
A questo effetto, che la diversità produce in modo naturale quando viene espressa in luoghi protetti da regole stabilite dalla (precedente) maggioranza, il caso di Jacinda Ardern aggiunge un elemento: di lei si è detto che fosse una “leader gentile”, magari non sempre ma comunque abbastanza da farne parlare. Ha aperto le porte della propria casa, si è mostrata in video conferenza anche mentre interagiva con la figlia e il compagno, ha allattato in aula, e a questi gesti più visibili è corrisposta una forma di sensibilità particolare nel gestire alcune delle molte crisi che la nazione ha attraversato nei suoi anni di governo.
Gentile, quindi inadeguata all’esercizio del potere
Jacinda interessava alle donne perché, come ha detto anche lei, ha proposto un “proprio modello di leadership”, e la diversità ha un bisogno enorme proprio di modelli nuovi e diversi, per ricavarsi il proprio posto al tavolo. Di leadership gentile sentiamo sempre più parlare: la gentilezza non è un tratto esclusivamente femminile e anche agli uomini e tra gli uomini si sottolinea la necessità di un atteggiamento di maggiore cura e ascolto verso i propri colleghi, avendo sperimentato che il modello del “comando e controllo” non funziona più. Ma c’è un motivo se ai leader di prima non veniva chiesto di essere “gentili”, e va oltre la ricerca di velocità insita in un modello direttivo.
E’ un motivo simile a quello che, durante l’assemblea Costituente, nel 1947, portò il deputato democristiano Antonio Romano ad affermare:
“Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa”.
Che cosa hanno in comune leadership e sensibilità
Da secoli, uno dei principali motivi addotti per l’esclusione delle donne da cariche di responsabilità, e in generale uno degli oggetti principali della critica di filosofi e pensatori, è stata la loro “estrema sensibilità”. Quella stessa sensibilità che oggi costituisce uno dei principali punti di forza degli esseri umani di fronte alle macchine, quella sensibilità che nella complessità odierna si traduce in intuito e capacità di decidere pur con informazioni incomplete: quella sensibilità è stata per secoli considerata un punto di debolezza insormontabile perché “certi contesti decisionali” richiedevano esclusivamente razionalità.
E’ evidente che ancora oggi – che abbiamo sdoganato, quanto meno dal punto di vista della conoscenza (pensiamo per esempio agli studi di Kahnemann), il fatto che la bontà di una razionalità assoluta non esiste, poiché tutte le decisioni sono prese in situazioni di informazioni incomplete o inesatte – non abbiamo aggiornato la narrazione del potere inserendovi a pieno titolo il tratto della sensibilità.
Un leader, per essere gentile, deve essere sensibile?
O stiamo parlando di una gentilezza di pura forma? E, se è la sensibilità a consentire una vera “caring leadership”, qual è il costo che deve pagare chi la prova?
Può darsi che un leader “gentile” venga più esaurito dall’attuale sistema di potere di uno che non lo è ?
Perché “dura di più” un leader non gentile
Le persone autistiche si chiudono al mondo per eccesso di sensibilità: sentono “troppo” e, non riuscendo a gestirlo, escludono tutto. Per assumere molto potere, nella forma che ha avuto fino ad oggi, non è possibile sentire troppo, far passare troppo di ciò che avviene intorno a sé: non è possibile quella vicinanza agli altri che è espressione e condizione della capacità di cura. Perché, se ti ascolto attentamente, se ti vedo nella tua complessità, dovrò poi gestire quel che ho visto e sentito: e questo quanto è sostenibile? Oggi molto poco, oggi è più efficace la strategia della chiusura: non dover gestire le emozioni, proprie e degli altri, sembra insomma essere una condizione di sostenibilità per esercitare il potere.
Per questo, anche se di sensibilità c’è un bisogno enorme in tutti i contesti, introdurla nei ruoli di potere è una trasformazione quasi irrealizzabile, e le dimissioni di Jacinda Ardern ne sono la conferma: il potere l’ha letteralmente “esaurita”. In teoria, se fai qualcosa che è nella tua natura e a cui dai un senso, questo genera energie, non le consuma. L’esercizio del proprio talento genera le energie che servono a far fronte alla dimensione del compito. Se questo non avviene è perché si è provato a inserire qualcosa di nuovo (la gentilezza, la sensibilità, alcuni aspetti della vita) in un contesto che ha mantenuto le convenzioni precedenti.
Tre cose che si possono fare per cambiare questo schema
Per fare spazio a un leader sensibile, se si vuole cambiare modello di leadership e se ne vede il beneficio, occorre insomma agire su tutte le dinamiche intorno a lui/lei.
I “vecchi” leader non hanno avuto bisogno di dare: non gli è stato chiesto di vedere i bisogni e la realtà degli altri. Questo ha preservato la loro energia, che non si è aperta all’ascolto. Se i nuovi leader devono “sentire” di più, per quegli stessi canali deve passare anche energia in entrata, o finiranno presto “col serbatoio vuoto”. Occorre insomma arricchire la narrazione di un nuovo tipo di potere con la consapevolezza che:
1) se la sensibilità proviene da determinate caratteristiche, come la capacità di cura, dobbiamo preservare lo spazio per l’esercizio di quella capacità di cura – lasciare al leader il tempo per amare.
2) La capacità di far crescere gli altri si basa su una relazione che deve diventare paritaria, trattando tutti da adulti, e quindi coloro che dal leader aspettano una guida devono a loro volta far emergere la propria adultità, fino a prendersi cura dei propri leader.
3) Un leader non basta per cambiare il sistema: se non si agisce sulle dinamiche intorno a lui/lei, ne verrà cambiato o alla fine, esaurito, ne uscirà.
E purtroppo, come ha raccontato molto bene Luisa Rosti in un post di qualche tempo fa, se un buon leader lascia, non è lui/lei a perderci, ma il mondo, che grazie alla sua leadership sarebbe potuto diventare un posto migliore.
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