La memoria è un muscolo che va allenato. Si muove attraverso strade, ricordi, immagini. Resta nitida nelle parole di chi racconta e s’insinua, rinnovata, in quelle di chi ascolta. Nella Giornata della memoria le parole di Emanuele Di Porto partono da una geografia precisa, esattamente da quella strada in cui la sua vita è cambiata e in cui abita ancora: siamo a Roma, nel ghetto ebraico, all’incrocio tra Piazza Mattei e Via della Reginella. Qui, il 16 ottobre 1943, un reparto scelto delle SS tedesche operò un capillare rastrellamento, deportando 1024 persone di religione ebraica, tra uomini, donne e bambini.
Il rastrellamento del ghetto
Di Porto all’epoca è un bambino di 12 anni: è l’alba quando sua madre esce di casa per avvisare il marito che nel ghetto sono arrivati i tedeschi. Emanuele dorme, il sonno è ovattato e ancora immerso nel ricordo della sera prima: “La sera del 15 ottobre, un bel venerdì, mamma c’aveva portato tutti al cinema: il cinema Centrale. Se pagava una lira e abbiamo visto un film con Gino Bechi: ancora me lo ricordo”.
Poche ore dopo, d’improvviso, il trambusto: arrivano i camion, arrivano le urla, arrivano i soldati tedeschi. “Dormivo nella stessa casa dove ancora vivo e in cui vivevamo in quindici persone: la mia famiglia e quella delle tre sorelle di mia madre. Una miseria di far paura”. Il padre di Emanuele, Settimio Di Porto, è già fuori casa quando arrivano le SS: vende souvenir e, ancora durante l’occupazione, riesce a lavorare svegliandosi nel cuore della notte per essere già dall’alba alla stazione centrale di Roma Termini e vendere ricordi ai soldati di ritorno dal fronte.
Settimio è fuori casa anche la mattina del 16 ottobre quando, con le prime luci del giorno, la moglie Virginia Piazza sente le voci e i rumori dei passi dei soldati nazisti e – convinta come molti che volessero arrestare solo gli uomini – si veste per andare ad avvertire il marito di non rientrare. Dice ai figli di aspettarla a casa – “non ve muovete da qua” riporta Di Porto – raccomanda loro di non uscire e corre alla stazione dove trova Settimio, gli racconta cosa sta succedendo e decidono insieme che sarebbe stato meglio che lui vada a nascondersi a casa di una sorella nel quartiere romano di Testaccio. “A Testaccio viveva un’altra sorella di mia madre” – spiega Emanuele – “dove pensavamo di poter essere al sicuro”.
Sulla strada del rientro, Virginia viene fermata in piazza Mattei e caricata su un camion. Il figlio Emanuele vede tutto dalla finestra che affaccia esattamente sulla via: “d’istinto mi viene da urlare: «Mamma, mamma» grido forte dalla finestra”. Sono le cinque e un quarto del mattino, salvo i fratelli addormentati in casa non c’è nessuno: Emanuele decide di scendere e salvare la mamma.
“M’ero messo in testa che volevo salvà mia madre, l’ho vista che stava dentro al camion: corro verso di lei e mi rimprovera subito, mi dice di andar via nel nostro gergo”. È già troppo tardi: un soldato carica anche Emanuele sul camion ma “non so come, mia madre con una spinta riesce a farmi scendere. Mamma mi ha messo al mondo due volte: quando mi ha partorito e quando mi ha salvato dal camion”.
Il bambino del tram
Dopo quella mattina del 16 ottobre ‘43, Emanuele non rivedrà mai più la madre: “lei era bellissima, aveva 37 anni e non l’ho mai più rivista”. Deportata ad Auschwitz–Birkenau, non riuscì a sopravvivere: Emanuele lo saprà attraverso il racconto della vicina di casa sopravvissuta. Nel frattempo, Di Porto dodicenne, non perde la lucidità: “Mamma m’aveva salvato e io per sfuggire ai tedeschi mi metto a camminare per allontanarmi dal ghetto: nel percorso incontro altri camion, altre persone che conoscevo caricate lì sopra. Cammino, non corro. Non potevo dare nell’occhio e avevo paura che la gente mi riconoscesse”.
Sono le sei del mattino, piove, Emanuele continua a camminare fino in piazza Monte Savello: “Qui all’epoca c’era il capolinea del tram, la cosiddetta circolare. Non sapendo che fare, salgo sul primo che trovo”. Al bigliettaio confida: “Guarda che so’ ebreo. Mi stanno cercando i tedeschi”. L’uomo gli fa cenno di salire e gli dice di mettersi vicino a lui: “Mi dà da mangiare la sua merenda – uno sfilatino con la frittata che ricordo come fosse ieri – e si fanno le due del pomeriggio: ancora non sapevo che sarei rimasto su quel tram per due giorni”. A fine turno, infatti, il bigliettaio si raccomanda con i colleghi: “Badate al ragazzino”. Così, per i giorni seguenti, quel tram diventa la casa che tiene al sicuro Emanuele.
Il ritorno a casa
“La terza mattina sale sul tram un amico di famiglia che mi riconosce e mi dice che mio padre mi stava cercando, convinto che fossi stato preso anche io nella retata. Mi riaccompagna a casa e, quando papà mi vede arrivare, non riesce a chiederci: piange”. Emanuele riconosce la vulnerabilità del padre e se ne fa carico: “Mio padre era cascato in depressione, piangeva perché sapeva che nostra madre non sarebbe più tornata. Mi sono fatto carico della mia famiglia, portavo i soldi a casa facendo quello che faceva mio padre: vendevo tutto quello che compravo all’ingrosso da una merceria vicino casa. Pettini, portafogli, elastici. E i soldati tedeschi compravano: a volte mi pagavano in soldi, altre volte in pagnotte di pane. Una volta, a Basilica San Paolo, ho venduto un portafoglio per cinquecento lire: ricordo ancora la paura, pensavo che quel soldato grande e grosso si fosse sbagliato. E invece, quando mi ha rincontrato, mi ha portato in un bar e mi ha offerto una cioccolata”.
Poter gridare: Sono ebreo!
Il ricordo di Emanuele Di Porto, oggi 91 anni, è vigile e lucido. Non cede alla retorica e vive nel presente: è alle nuove generazioni che Di Porto vuole parlare perché “non sono una martire, sono la storia. Per questo, vi servo a ricordare”. Il suo racconto è inedito e potente: travalica i libri di storia e riporta la tragedia nella vita quotidiana che deve procedere. Assicurare il cibo in casa, andare avanti, sopravvivere, reinventarsi. Una responsabilità che Di Porto fa sua a dodici anni e che rivendica: “Io non sono stato mai piccolo, per questo non sarò mai vecchio”.
E infatti la vita di Emanuele resiste all’orrore e si salva nella bellezza: “la mattina del 4 giugno 1944, quando sono arrivati gli alleati, una donna ebrea – che abitava davanti casa ma era una spia che chiamavamo la Pantera nera – gridò: «Sono arrivati, sono arrivati». La gente d’improvviso uscì di casa euforica, c’era un’allegria incredibile. Io mi accodai a un gruppetto di ragazzi e arrivati a Piazza Venezia, proprio sotto il balcone di Mussolini, strillai: «sono ebreo, sono ebreo!». Finalmente potevo non avere paura”.
Di Porto racconta la paura senza giri di parole, “ma non voglio essere compatito, poi sono arrivati i tempi buoni: ho imparato l’inglese, un po’ di giapponese. Avevo la licenza per poter vendere a via Veneto, la Hollywoord italiana ai tempi della dolce vita romana: parlavo con gli attori, facevo colazione con Montgomery Clift che, ai tempi, girava a Roma con Vittorio De Sica”. Il cinema di quel venerdì sera torna nella sua vita, lo salva e assolve la storia che resiste alla tragedia.
Il potere della memoria
Oggi Di Porto vive ancora al ghetto e, dalla stessa finestra da cui ha salutato per l’ultima volta la madre Virginia, ora si vedono turisti curiosi. Alcuni di loro si soffermano sulle pietre d’inciampo che fanno capolino davanti al portone: spiccano i nomi di Virginia Piazza e Pacifico Di Consiglio, lo zio di Emanuele deportato dopo un’irruzione delle SS in casa. Nella stanza dove ottant’anni fa “si dormiva in quindici persone” adesso si fanno spazio fotografie, lettere, riconoscimenti, biglietti commossi: Emanuele Di Porto è testimone della storia e la porta con sé nelle scuole, nei luoghi che attraversa, nelle parole degli abitanti di quartiere che gli stanno accanto e lo salutano per strada: “Buona domenica Emanuè”.
Mentre raggiunge il quinto piano del suo appartamento, scalando i gradini con disinvoltura perché “me la cavo ancora bene da solo” – Di Porto racconta di aver smesso di temere: “nella mia vita ho dormito per terra e anche al Grand Hotel. So cavarmela anche con i ragazzi”. Ne danno prova le lunghe lettere che custodisce gelosamente e che non esita a mostrare. Tra le sue mani, la calligrafia dei bambini che incontra nelle scuole e i libri che raccolgono la sua storia: “Il bambino del tram” (Orecchio Acerbo, 2022) e “Un Tram per la vita” (Piemme, 2023).
Nella partecipazione al suo racconto, Di Porto allena la memoria, la trasmette e ne fa potere: “se domani dovessi parlare con papa Francesco o con Sergio Mattarella, ne avrei da raccontare: infatti vorrei farlo”. Intanto “ho messo vicine le foto di mamma e papà”: La storia di una famiglia racconta la storia. Quella che dice chi siamo e non può essere dimenticata. Di Porto oggi non è “né vecchio, né bambino” e, in questa vita senza età, la memoria resiste al tempo: ricordare diventa una responsabilità e un diritto.
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