Ritorna a Milano il Photofestival 2022, ancora una volta in versione autunnale (strascico della pandemia) anziché primaverile: da metà settembre fino a fine ottobre il capoluogo meneghino fiorisce di mostre, eventi, workshop, incontri nel nome dell’immagine e della fotografia.
La kermesse organizzata da AIF (Associazione Italiana Foto & Digital Imaging) in collaborazione con Confcommercio Milano, patrocinata da Regione Lombardia e Comune di Milano, è giunta alla 17esima edizione, sempre sotto la direzione artistica di Roberto Mutti.
Il tema di quest’anno, Ricominciare dalle immagini. Indagini sulla realtà e sguardi interiori, riassume bene lo spirito di quest’edizione: è tempo di riprendere in mano il filo aggrovigliato delle nostre vite, ognuno nella sua quotidianità e con i propri strumenti, indipendentemente dalle numerose difficoltà che incombono; per chi, a vario titolo, ha a che fare – per lavoro, per passione, per istinto e per chissà quanti altri motivi – con l’immagine e la fotografia, la sfida che ci viene suggerita consiste nel percorrere il sentiero arduo e affascinante fra dentro e fuori, fra la realtà – concreta, dura, talvolta soffocante, ma anche magnifica e gratificante– che abitiamo e il continente interiore che ci sostiene e ci anima.
Come da qualche anno, vi propongo un mio personale itinerario, anche se il consiglio è sempre quello di ascoltare soprattutto il proprio fiuto e affidarsi alla casualità dei percorsi urbani ed extraurbani, da seguire possibilmente tenendo in mano il piccolo catalogo cartaceo bilingue che, seguendo una tradizione degna di plauso, accompagna la rassegna e può essere trovato gratuitamente in tutti i luoghi (circa 150) che accolgono mostre ed eventi.
Partendo dal cuore simbolico della città, a due passi dal Duomo, non si può passare sotto silenzio la grande rassegna Richard Avedon, Relationships (visibile fino al 29 gennaio 2023). Nelle sale di Palazzo Reale che la ospitano si celebra uno stuzzicante passaggio di consegne, essendosi conclusa non da molto la coinvolgente mostra su Oliviero Toscani per celebrarne gli ottant’anni: il fotografo statunitense è infatti per Toscani il più grande di tutti, il maestro indiscusso, al punto da avere intitolato il suo penultimo libro, scritto sotto forma di raccolta di lettere ai suoi maestri, Caro Avedon. In mostra, realizzata in collaborazione con il CCP (Center for Creative Photography) e la Richard Avedon Foundation, si possono ammirare sia i servizi che, a partire dalla metà degli anni ’50, hanno rivoluzionato profondamente la fotografia di moda, segnando uno spartiacque tra un prima e un dopo, sia gli altrettanto memorabili ritratti di personaggi celebri: dive e divi del cinema, registi, scrittori e intellettuali, artisti, musicisti, uomini politici scorrono di fronte ai nostri occhi in immagini dove la straordinaria eleganza e la genialità della costruzione dell’inquadratura si uniscono a una perentoria incisività di indagine psicologica.
Palazzo delle Stelline ospita i Sony World Photography Awards 2022 (visibile fino al 30 ottobre), esponendo le opere dei vincitori e dei finalisti del prestigioso premio internazionale promosso da World Photography Organisation e Sony: il ricavato della mostra sarà interamente devoluto alla Fondazione Progetto Arca onlus per l’emergenza Ucraina. Ci tengo a sottolineare che la visita, oltre a permettere di compiere un concreto gesto di solidarietà verso le genti ucraine, vi saprà ripagare con l’indubbia qualità di molte delle immagini esposte, le quali compongono un ricco e interessantissimo mosaico di storie provenienti da popoli e territori di tutto il mondo.
Ma la ricchezza del Photofestival è paragonabile a una foresta, nella quale, accanto alle maestose piante che dominano dall’alto, catturando tutti gli sguardi, ci sono più piccole e delicate specie, nelle quali pure scorre una linfa calda e impetuosa e da cui possiamo cogliere frutti delicati, preziosi e non meno nutrienti.
Come quelli che ci regala Anna Giuntini da Manifiesto Blanco (fino al 22 ottobre) nella mostra Ane leid is nivver eneuch, il cui titolo è un antico proverbio scozzese che significa: “Un solo linguaggio non è mai abbastanza.”, una frase che si attaglia perfettamente alla situazione attuale della fotografia, un medium che muta continuamente, quasi giorno per giorno, sotto i nostri occhi, sottoposto com’è a un’incessante metamorfosi. Collages con fotografie di manufatti anonimi, connessi ai temi dello scambio, del rapporto e della comunicazione- tralicci dell’alta tensione, pali della luce, cartelloni stradali per manifesti -, sono innestati nella serie Displays and Powerlines con carte, buste, etichette, scontrini, biglietti e altri reperti del quotidiano, minuziosamente raccolti dall’autrice a comporre un diario tattile e una traccia memoriale dei propri viaggi, e intrecciati con fili dorati, che uniscono in una ragnatela di ricordi ed emozioni le foto, dando loro corpo e spessore. La fotografia, linguaggio replicabile e seriale per eccellenza, diventa altro, entra nel reame dell’unico, dove ogni immagine è individuo, ogni ricordo mondo. I fili dorati inoltre non si limitano a unire le opere della serie tra di loro, attraversano la galleria e raggiungono le opere sull’altra parete, diventando così ponti tra esperienze e temporalità differenti. L’altra serie esposta, Maldafrica, si compone di 12 paesaggi onirici, nati anch’essi da un complesso lavoro di sovrapposizione di strati molteplici di materiali eterogenei, accomunati dal carattere testimoniale di esperienze vissute dall’autrice nel grande continente; ogni immagine è incorniciata da strisce di garza medica, perché il maldafrica – sostiene Giuntini – è una malattia inguaribile.
Al Centro Culturale di Milano fino al 3 novembre, sotto l’emblematico titolo Milano Bene Comune, viene presentato un ampio gruppo di lavori del Circolo Fotografico Milanese, storica istituzione fondata nel 1930, che mi piace ricordare anche per sottolineare il ruolo storicamente rilevante svolto dalle associazioni di coloro che, spesso con sussiego, vengono definiti fotografi amatoriali, i quali costituirono e tuttora costituiscono un nerbo fondamentale della pratica fotografica del nostro Paese. In mostra si dipana sotto i nostri occhi un racconto corale di alcuni dei numerosi volti della metropoli meneghina, osservata con partecipata dedizione, chiarezza narrativa e rigore di sguardo, secondo il linguaggio tipico del reportage cittadino dei soci del circolo.
Concludo questo percorso di suggerimenti di visione con Il tempo ritrovato, mostra di un fotografo di razza, con alle spalle una carriera importante, ma ancora straordinariamente dotato di freschezza creativa, Pio Tarantini, ospitata dal piccolo, accogliente spazio di Lab 1930, una nuova galleria nella zona ormai art addicted di porta Romana. Potrete scoprire un nuovo aspetto della produzione di Tarantini, cioè le inedite Cassettiere (#Lettere e #Pellicole), due vecchi cassetti di tipografia che contengono, rispettivamente, frammenti di lettere e buste indirizzate al fotografo e pellicole di vecchi film personali: lettere e pellicole amorevolmente archiviati sotto vetro in teche di legno, come pietosi altari dediti al culto della memoria. Accanto a ciascuna cassettiera in legno, una fotografia a grandezza naturale della stessa: ecco posto di fronte ai nostri occhi l’enigma della fotografia, il misterioso bisogno che spinge la nostra specie homo sapiens sapiens a desiderare, creare, osservare, amare e odiare immagini riproducenti il reale che ci circonda e che, evidentemente, davvero non ci basta. Completano la mostra alcuni esempi dei più celebri lavori di Tarantini, dove il suo caratteristico mosso ci proietta nel cuore della problematica che particolarmente gli sta a cuore, quella del tempo che scompare e ritorna, da fermare, archiviare, proustianamente ritrovare attraverso le tracce del suo trascorrere, come le scie luminose che i corpi in movimento imprimono sulla pellicola (o sul dispositivo digitale che ne fa le veci nei nostri contemporanei apparecchi fotografici) delle sue fotografie, corpi presenti e assenti al tempo stesso, ombre, ricordi, ma anche presenze non solo fantasmatiche ma concretamente vive e palpitanti. Di Tarantini è il trittico di apertura del pezzo, che, come un anello, si richiude così sul punto dove è iniziato.