Correva l’anno 1992. L’anno della strage di Capaci, delle Olimpiadi di Barcellona, dell’elezione di Clinton, dell’Oscar a Mediterraneo. L’inizio degli anni ’90, un tempo vicino e lontano allo stesso tempo. È proprio il 1992 che ha visto nascere la Giornata Mondiale per la Salute Mentale, che si celebra ogni anno in occasione del 10 ottobre.
Inizialmente voluta dalla Federazione Mondiale per la Salute Mentale e oggi sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è una ricorrenza che per decenni è passata quasi inosservata. È servita una pandemia globale per restituirle visibilità e importanza. Oggi, a 30 anni di distanza da quel primo 10 ottobre, sappiamo che non esiste salute senza salute mentale e che il benessere psicologico dovrebbe essere una priorità. A ricordarcelo – se ce ne fosse bisogno – anche il tema scelto dall’OMS per quest’anno: “Make mental health and well-being for all a global priority”.
In occasione di questa celebrazione, mi chiedo cosa rimarrà, cosa sedimenterà nella memoria delle persone. Quanto siamo consapevoli della sua necessità e quanta volontà c’è di rendere il benessere mentale centrale ogni giorno dell’anno. Ad oggi, infatti, è ancora lontana una società davvero inclusiva da questo punto di vista.
Negli Stati Uniti – tipicamente associati a maggiore apertura verso questi temi – il 45% delle persone che convive con una sofferenza emotiva non cerca aiuto professionale.
Le ragioni sono molteplici: la maggior parte (36%) sembra preferire l’auto-aiuto o non possiede conoscenze sufficienti per capire quale tipo di supporto cercare (34%). Una restante percentuale (28%) riporta una mancanza di fiducia nei confronti dei professionisti della salute mentale, mentre altri (22%) riferiscono di non cercare aiuto a causa dello stigma che ancora permea questo ambito.
Prendersi cura del proprio benessere psicologico non dovrebbe generare vergogna. O per lo meno, questa non dovrebbe inficiare lo stare bene delle persone. Eppure, se guardiamo altri Paesi, i dati sono simili e le ragioni di una mancata richiesta d’aiuto le medesime. È quello che emerge dal “The Mental State of the World Report”, pubblicato ogni anno da Mental Health Million Project. Nell’edizione 2021, infatti, la percentuale di persone che non si rivolge a specialisti sale al 50% nel Regno Unito e tocca picchi dell’81% in Nigeria.
Spesso, a mancare sono i servizi: spostandosi in Italia, ad esempio, si registra una spesa pubblica sanitaria destinata alla salute mentale pari al 3,5%, contro una media europea del 10%. Alla luce di questo dato, appare evidente quanto – almeno per il nostro Paese – la raccomandazione che l’OMS fa di rendere la salute mentale una priorità, sia ancora una chimera.
In questo scenario, il confronto con altre nazioni diventa allora fonte di ispirazione. È il caso della Francia, che arriva al 15% di spesa pubblica destinata alla sfera psicologica, o della Norvegia che tocca quota 13,5%. Ad aggiudicarsi il primato di luogo in cui si sta meglio da un punto di vista mentale è però la Svezia. Risultato che emerge da un’analisi svolta dalla compagnia di assicurazione sanitaria William Russell, che ha preso in considerazione fattori quali: ore dedicate al tempo libero e alla cura della persona, incidenza degli spazi verdi, temperatura media e – appunto – spesa pubblica per la salute mentale.
Il benessere psicologico è una condizione sfaccettata e il lavoro svolto da William Russell lo mette in evidenza. Se l’obiettivo è renderlo una priorità, è necessario intervenire su una pluralità di fronti: personali, sociali, ambientali, politici, economici. La domanda pertanto diventa: quando saremo davvero pronti a farlo?
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