Il perfezionismo è associato a malessere psicologico e correlato a depressione, stress e burnout. È quanto ricorda un recente articolo di The Economist. Non solo: la letteratura evidenzia infatti che è presente anche in altri tipi di patologie, come disturbi alimentari o disturbo ossessivo-compulsivo.
La tendenza a non accettare alcun tipo di imperfezione si accompagna a standard di comportamento grandiosi, spesso ben al di sopra delle proprie possibilità. Si punta a un traguardo di per sé irraggiungibile e si è accompagnati da vissuti di insicurezza e
dal costante timore di sbagliare.
Il perfezionismo, in virtù di questa sua natura sfaccettata, è da sempre una delle risposte più gettonate nei colloqui di selezione, nel momento in cui viene chiesto quale sia un proprio difetto. È infatti evidente la sua doppia faccia: da un lato qualità da ricercare, dall’altro trappola da evitare.
Se spesso è considerato funzionale a un alto livello di performance – e quindi coerente con gli standard che oggi vengono richiesti in molte organizzazioni – presta tuttavia il fianco a diverse criticità. Riguardanti tanto la persona quanto il suo lavoro. Se, come visto, genera spesso malessere psicologico, è anche vero che non sempre è così funzionale come può apparire.
La domanda quindi diventa: in questo presente ibrido e in costante accelerazione, quanto è efficiente essere perfezionisti? Non potrebbero forse risultare più efficaci persone rapide, sebbene meno scrupolose e precise?
Ecco allora che chi si ritrova a combattere contro la propria tendenza alla meticolosità, può trovarsi in conflitto non solo con sé stesso o sé stessa, ma anche, paradossalmente, con il proprio lavoro.
Molto dipende anche dal tipo di perfezionismo che la persona insegue. In Psicologia se ne distinguono tre: auto-diretto, etero-diretto e prescritto socialmente. Il primo è proprio di chi fa pressione su di sé, imponendosi standard eccessivamente elevati perché vuole sentirsi perfetto. Il secondo, invece, è rivolto all’esterno: ad essere perfetti, questa volta, devono essere gli altri. Infine, il terzo è tipico di chi ritiene che le altre persone abbiano aspettative grandiose nei propri confronti. L’individuo, dunque, crede che sia necessario raggiungere quegli standard per essere visto, riconosciuto, accettato.
In tutti e tre i casi, si è di fronte a una trappola psicologica che rischia di tenere in scacco. Si finisce per cercare risultati che si pensa siano necessari, perdendo di vista le effettive richieste da parte dell’esterno. Si cade in una spirale nella quale ci si focalizza su ciò che si ritiene – spesso a torto – funzionale, finendo per non essere efficaci.
La società della performance in cui viviamo ci pone di fronte a un paradosso: ci spinge ad alti livelli di prestazione, ma ci impone anche dei ritmi talmente serrati da rendere impossibile mantenere quella precisione che richiede. Ecco allora che forse la soluzione sta proprio qui: accettare le sbavature, farle proprie, e comprendere che l’imperfezione fa funzionare meglio. Anche da un punto di vista psicologico.
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