Qual è il trucco di quelli che “ce la fanno”: sopravvivono alle crisi più lunghe e, anzi, ne escono addirittura rafforzati? Pensiamo alla lunga fase di incertezza e di cambiamento che la pandemia ha creato alla maggior parte delle persone nel mondo, e a come possa assomigliare allo shock improvviso (primavera del 2020) e poi allo stress prolungato (due anni di attesa del cosiddetto “new normal”) di qualcuno che si trovi in guerra oppure prigioniero per molti anni. Succede qualcosa di improvviso e inaspettato che cambia radicalmente la nostra vita: ci troviamo immersi nostro malgrado e, come prima cosa, misuriamo il rischio immediato – usando quelli che la psicologia chiama comportamenti espliciti di gestione delle crisi.
Ma poi l’emergenza acuta rientra e ci troviamo in uno stato prolungato di cambiamento, che mette in gioco qualcosa che per noi è molto più difficile cambiare: i nostri “comportamenti impliciti”, gli automatismi e le abitudini su cui fondiamo la nostra sensazione di normalità. Pensiamo a come non diamo più per scontato oggi un abbraccio a un amico, a come esitiamo a stringere una mano, a come cerchiamo istintivamente una mascherina prima di entrare in un negozio: nuovi comportamenti hanno sostituito quelli che prima erano così automatici da non richiedere alcun pensiero cosciente. La parte più traumatica di una crisi riguarda proprio il modo in cui accettiamo di cambiare radicalmente il nostro modo di vivere, perché sotto ad esso corre il nostro modo di vedere la vita.
Serve ottimismo? In realtà no: secondo le ricerche scientifiche più recenti, pensare positivo non aiuta necessariamente a superare le crisi più dure, anzi. Scrive la scrittrice Emily Esfahani Smith, autrice de “I quattro pilastri della felicità”:
“In generale, le persone resilienti hanno reazioni intensamente negative ai traumi. Sperimentano disperazione e stress, e riconoscono l’orrore di quel che sta succedendo. Ma, anche nel momento più buio, vedono barlumi di luce, ed è questo a sostenerli”.
Che cosa sono quei luccichii, che mantengono accesa la speranza anche nell’ora più dura? E che cos’è in effetti, per ognuno di noi, l’ora più dura? L’ora più dura è il momento, necessario e spesso purtroppo anche ripetuto e aggiornato col tempo, in cui capiamo che la crisi durerà a lungo, che nessuno verrà presto a salvarci. Che questa, insomma, è la nostra nuova normalità. E’ qui che dobbiamo stare e non serve colorarlo di rosa, anzi: è utile accettare una dose di disperazione dal riconoscimento di ciò che si è perso, del passato che non è più. La sofferenza, che accompagna quel processo doloroso che è il lasciar andare una vecchia idea di vita, è necessaria per portare tutta la forza che occorre nel momento presente. Perché al momento presente serve tutta la forza possibile.
Abbandonare una speranza ottimistica e naturale che un evento sia destinato a chiudersi presto e a non lasciare traccia, consentendoci di “tornare indietro”, è la fase più dura dopo l’urto del trauma, perché noi siamo istintivamente portati a minimizzare e a proteggere quel che era, le nostre abitudini, quella miriade di cose invisibili che ci rendevano “noi”. A tenerci in piedi sono però scintille di qualcosa che avevamo anche prima: una convinzione di fondo che alla fine andrà tutto bene, o che comunque noi andremo da qualche parte, e ci andremo bene se sapremo portare con noi quel che veramente importa.
Secondo lo psicologo John Leach, che ha passato la vita a studiare il comportamento dei sopravvissuti:
“Le persone che sopravvivono ai disastri sono quelle capaci di riacquistare le funzioni cognitive velocemente dopo l’impatto, misurare il nuovo ambiente in modo accurato e avviare azioni dirette all’obiettivo per sopravvivervi”
Come spiega un articolo citato di recente dall’Harvard Business School, questa è la chiave del “paradosso di Stockman”: avere al tempo stesso “il realismo che serve per lasciar andare i meccanismi intrinseci di sopravvivenza e la fede radicata che serve per impararne di nuovi”. Psicologicamente, è difficilissimo. E’ inevitabile, infatti, attraversare una fase di disperazione, necessaria per rompere i vecchi meccanismi e apprenderne di nuovi. Come dice Marsha Linean, fondatrice del concetto di “accettazione radicale”:
“L’accettazione radicale non vuol dire che non provi a cambiare le cose… non puoi cambiare niente se non lo accetti. Perché, se non lo accetti, proverai a cambiare qualcos’altro, che tu pensi sia la realtà”.
Il consolidamento dei nuovi meccanismi appresi da chi sopravvive nel nuovo contesto diventa evidente quando, nelle parole di Leach, il sopravvissuto “diventa di nuovo qualcuno”. E sapete qual è il segnale più evidente di ciò? La sua capacità di scherzare, di aiutare gli altri e di articolare i propri valori nella nuova situazione. Questo avviene, come ben racconta l’ammiraglio Stockdale da cui nasce la definizione del paradosso, in uno stillicidio di piccoli momenti quotidiani, e non con grandi azioni eroiche. Avviene ogni giorno, così come la speranza può seguire ritmi circadiani e sorgere col sole per abbandonarci di nuovo al tramonto. A tenerci insieme è il nostro senso di identità, è la consapevolezza di chi siamo.
Spiega infatti Leach che, non a caso, nelle operazioni di salvataggio ai sopravvissuti si chiede subito di dire chi sono, nome e cognome e altre informazioni come con chi sono e cosa sanno fare: questo riporta infatti le persone velocemente alla propria identità, unico vero ancoraggio ad una realtà per il resto radicalmente diversa. Allo stesso modo, l’articolo dell’Harvard Business School invita a usare quotidianamente sul lavoro alcune tecniche per rafforzare il senso di sé delle persone, da troppo tempo immerse in un cambiamento rispetto al quale occorre rinnovare radicalmente la visione del mondo e di sé stessi.
Riaffermare chi sono, iniziando ogni riunione con un giro di tavolo in cui si dice qualcosa di sé, ricollegare il proprio ruolo a una visione a lungo termine che non è cambiata (ma ricordandola e rendendola attuale), sfidare la naturale propensione a “normalizzare” tutto abusando di bias che sono in realtà obsoleti e quindi inefficienti per comprendere la realtà, chiedendo spesso se “qualcosa non torna”, facendo quindi spazio al dubbio e al cambiamento…
Sono alcuni dei suggerimenti per manager ed HR che vogliano aiutare le persone ad accettare che siamo tutti, almeno un po’, in un “paradosso di Stockdale”: non prigionieri come è stato lui, in Vietnam per oltre sette anni, ma da due anni intrappolati in un’incertezza senza precedenti, che si accumula alle molte altre che ci raggiungono da più parti, e rispetto alle quali diventa impossibile e irrealistico l’ottimismo di chi aspetta di “tornare alla normalità”. Molto più reale e alla nostra portata, per quanto incredibilmente faticosa, è la possibilità che abbiamo di ricordarci su cosa abbiamo sempre fondato e possiamo continuare a fondare la nostra identità, che intanto si trasforma e si adatta, e fare dei valori – che avevamo prima e che abbiamo ancora oggi – un ponte sospeso per andare avanti, continuando a vedere (e a produrre) scintille di futuro.
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