Perché li chiamiamo femminicidi?

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Il termine femminicidio è entrato nell’uso comune in Italia da una decina d’anni, ma la sua genesi è lontana e il suo utilizzo ancora discusso. Non è raro, tuttora, per esempio tra giornalisti, trovarsi a discutere sull’opportunità del suo utilizzo. Tra le più frequenti critiche che mi è capitato di sentire ci sono quella che sarebbe denigratorio per le donne uccise, che si tratta di un termine cacofonico e poco comprensibile, scorretto (“perché allora non si parla di maschicidi?”), solo per citarne alcune. La questione della definizione però non è una questione di lana caprina o per appassionati del genere: definire correttamente un fenomeno significa comprenderlo, e comprenderlo signifca poterlo misurare, confrontare e – solo allora – intervenire con azioni appropriate, per evitare che continui a verificarsi.

Maria Giuseppina (Giusy) Muratore, sociologa e Prima Ricercarice Istat, è esperta di criminalità, violenza contro le donne e giustizia, è responsabile delle rilevazioni condotte dall’Istat su questi argomenti e siede ai principali tavoli internazionali su questi temi. “Come si misurano i femminicidi è diverso da come si misurano gli omicidi delle donne“, ci spiega. “È dal 2020 che Istat parla di femminicidi, prima erano omicidi delle donne“: una gran differenza per le politiche da mettere in atto. Tuttavia, la genesi del termine femminicidio è ben più datata e si muove parallelamente al percorso di consapevolezza sui diritti delle donne che ha avuto l’impulso decisivo con le battaglie femministe degli anni 70. Il suo sempre maggior utilizzo non corrisponde però sempre a una sua comprensione reale e profonda.

Il femminicidio, secondo la definizione del vocabolario Treccani, è “l’uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale”. Non si tratta, quindi, della generica uccisione di una donna per mano di chiunque, come nel caso di una rapina, per esempio. Quello non è un femminicidio. Ma è l’uccisione di una donna a causa del suo essere donna in quel contesto sociale e culturale, in cui alla donna è attribuito un ruolo di sottomissione, in cui deve sottostare a dinamiche di potere. Il femminicidio è la punta dell’iceberg di una cultura che vede la donna subalterna all’uomo (marito, compagno, ex ma anche padre o fratello), che la priva di autonomia e autodeterminazione. Della sua propria identità, del suo diritto di vivere, se non in funzione dell’uomo e secondo le sue aspettative.

L’Eige, European Institute for Gender Equality, definisce il femminicidio come “l’uccisione di donne e bambine a causa del loro genere, a volte commessa o tollerata da soggetti sia privati sia pubblici”. L’istituto fornisce anche una definizione statistica, molto importante e vedremo perché: il femminicidio, in questo senso, è “l’uccisione di una donna da parte di un partner intimo e la morte di una donna come risultato di azioni dannose per lei. Si può definire partner intimo un ex coniuge, un coniuge o un partner fisso, indipendentemente dal fatto che l’omicida abbia condiviso o condivida la stessa residenza della vittima”.

Giusy Muratore, prima ricercatrice Istat ed esperta di violenza di genere

Giusy Muratore, prima ricercatrice Istat ed esperta di violenza di genere

Una definizione corretta è importante perché ci permette una misurazione del fenomeno, ci permette di capire quanto sia diffuso, quanto pervasivo, ma in Italia c’è ancora bisogno di un consolidamento dei dati: “Le fonti cha abbiamo per misurare omicidi e femminicidI sono in primis i dati del ministero dell’Interno, dati suddivisi per cause di morte. Quel dato che ci fa misurare un costante e forte declino degli omicidi di uomini che non vediamo nelle uccisioni delle donne“, dice Muratore. Tuttavia questi dati non raccontano le caratteristiche di queste donne e i dati della vittima e quelli dell’autore non sono messi in relazione tra loro.Una fonte che ci fornisce questi elementi sono le sentenze – dice Muratore –  e nel 2015-16 c’è stata l’indagine del ministero della Giustizia sulle sentenze, di recente poi la Relazione della Commissione femminicidi del Senato che ha riproposto l’analisi delle sentenze, da cui emergono informazioni sulla vittima, la violenza pregeressa subita, la relazione tra vittima e aggressore. Ecco, sarebbe utile se questa rilevazione venisse messa a regime”, sottolinea l’esperta.

A livello internazionale “si sta lavorando molto negli ultimi anni per arrivare a una definizione internazionale condivisa e il numero delle variabili di cui tenere conto è molto ampio“, spiega Muratore, che è anche referente per il sistema integrato sulla violenza di genere. A livello internazionale, tra i femminicidi sono annoverati per esempio le uccisioni delle donne a carattare omofobico e razziale, quelle legate alle norme tradizionali, come quello d’onore o inerente la dote o legato alle harmful practices (come le mutilazioni genitali femminili). Ancora, le uccisioni legate all’ambiente criminale, come le donne uccise vittime di tratta o di prostituzione o comunque nell’ambito dello sfruttamento criminale.

Nel momento in cui l’omicidio di una donna rientri in una di queste categorie, vanno poi esaminate diverse variabili: il set minimo del Center of Excellence for Gender Statistics (Cegs) riguarda le caratteristiche delle vittime (21 variabili tra cui per esempio se è stata vittima di violenza sessuale, se era incinta, se era una prostituta, etc.),  le caratteristiche dell’autore (18 variabili tra cui i precedenti penali, le storie di violenza pregresse, etc), la relazione vittima-autore (9 tipologie di relazione), il modus operandi (5 variabili tra cui l’accanimento sul corpo e tipo di armi usate, etc) le circostanze (9 variabili), la motivazione di genere (14 variabili tra cui l’intenzione della vittima di separarsi, la gravidanza, il conflitto sulla custodia dei figli, la gelosia e la possessività, i motivi d’onore, i motivi di odio legati all’identità sessuale della vittima, la violenza domestica pregressa, le attività criminali coinvolte).

In alcuni casi – osserva Muratore – occorre più di un anno per capire se si è di fronte a un femminicidio o a un omicidio di donna, è un vero e proprio percorso per identificarlo in base alle leggi del Paese in cui si è verificata l’uccisione“. Un percorso nella vita della vittima e dell’assassino, per esaminare la presenza o meno di una “marea di variabili”. E l’Italia, secondo la prima ricercatrice Istat, dovrebbe seguire la stessa strada. A fine maggio c’è stato un passo importante, con l’approvazione della legge sulle “Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere”,  che punta a “garantire un flusso informativo adeguato per cadenza e contenuti sulla violenza di genere contro le donne al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno”.

Grazie alla nuova legge speriamo di avere una intersezione delle variabili – dice Muratore – i dati devono essere resi parlanti, riportare tutti gli aspetti essenziali per la corretta definizione del fenomeno. La sfida è far parlare i dati: non è facile, ci sono temi di privacy da considerare. Ed è anche ovvio che alcune cose si possono sapere solo  alla fine del percorso fatto dalla giustizia, ma ci sono molti altri elementi che possono essere condeirati e rendere il dato forte. Quello che è importante è avere un dato certo, seppur non ferreo, per fare delle politiche adeguate. Un dato che ci porti a capire perché quel 60-70 per cento dei casi in cui la donna è uccisa dal partner resta costante negli anni“.

Comprendere i femminicidi, in maniera adeguata e accettandone la complessità, ci permette di comprendere a fondo il fenomeno della violenza di genere: “Gli omicidi sono pochi ma sono molto rappresentativi di quello che accade prima – riflette Giusy Muratore – le caratteristiche che emergono sono le stesse dell’indagine sulla violenza sulle donne. Comprendere i femminicidi è importanti di per sé ma lo è anche per quello che accade in precedenza in quel contesto“. La violenza sulle donne è un problema culturale, “figlio della cultura di separazione, della diversità di approccio, di quella asimmetria di potere che sta dietro a tutti questi casi e di cui, ancora oggi, siamo portatori“.

Intanto, in Italia, nei primi sette mesi del 2022 il Viminale ha contato oltre 50 femminicidi, uno ogni tre giorni. Un dato – appunto – drammaticamente costante negli anni. E che richiede un’attenzione diversa.

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