Quinta condanna di Strasburgo, l’Italia non ha protetto la vittima di violenza

pexels-polina-sirotina-1217237-1

*** Articolo scritto in collaborazione con Livia Zancaner

Una nuova condanna da Strasburgo per l’Italia relativamente un caso di violenza sulle donne. A pochi mesi dal caso Landi, interviene nuovamente la Corte europea dei diritti dell’Uomo a bacchettare il nostro Paese e condannarlo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’Uomo che vieta i trattamenti inumani e degradanti. In questo caso Silvia De Giorgi, padovana e madre di tre figli, si era rivolta alla Corte accusando le autorità italiane di non aver fatto il necessario per proteggerla dalla violenza domestica nonostante le ripetute denunce: 7 dal 2015 al 2019.  Si tratta della quinta condanna dell’Italia in cinque anni per un caso legato alla violenza su donne e sui loro figli e il nostro Paese, dopo il caso Talpis, è già sotto sorveglianza nell’ambito della procedura di esecuzione davanti al Comitato dei ministri del Consiglio D’Europa.

Carrano: «Dalla Corte il messaggio è chiaro: affrontare la violenza in chiave preventiva»
«Dal caso Talpis al caso De Giorgi – commenta l’avvocata Titti Carrano che ha seguito vari casi di condanna dell’Italia tra cui proprio il caso Talpis – le criticità rilevate dalla Corte sono sempre le stesse, tra queste l’assenza di valutazione del rischio, il non riconoscimento della violenza, la mancanza nei tribunali italiani di una visione d’insieme nella successione degli episodi, come richiesto nei casi di violenza domestica. La Corte lo ha ripetuto in tutte le sentenze,  è ormai necessaria e non è più rinviabile in Italia una riforma organica e seria  che affronti la  violenza contro le donne non in chiave repressiva come fatto finora perché non ci sono stati risultati, ma in chiave preventiva e di riconoscimento della violenza».

La Corte riconosce carenze nella reazione dei Pm
La Corte, si legge nella sentenza, «rileva che mentre i carabinieri hanno reagito senza indugio alle due denunce che la ricorrente ha depositato nel novembre 2015» mentre i pm «dal canto loro, più volte informati dai carabinieri, non hanno chiesto al Gip la misura cautelare richiesta dai carabinieri e non hanno svolto una rapida ed efficace indagine, dato che a sette anni dai fatti il procedimento è ancora pendente in primo grado». In più «l’indagine sui fatti denunciati tra il 2016 e il 2017 è ancora pendente e nessuna indagine, invece, è stata svolta a seguito dei maltrattamenti denunciati dai servizi sociali nel 2018». Insomma, ritardi si sommano a ritardi.  Inoltre, prosegue la Corte,  nel febbraio 2018, dopo che i servizi sociali hanno denunciato i maltrattamenti subiti dai minori (che la ricorrente aveva denunciato in diverse occasioni nelle sue precedenti denunce), «non sono stati presi provvedimenti investigativi». La Corte ribadisce che «non rientra nella sua competenza sostituirsi alle autorità nazionali e fare una scelta al loro posto tra le misure da adottare. Ritiene tuttavia che, alla luce dei numerosi elementi a disposizione delle autorità, la Procura della Repubblica adita nel novembre 2015 avrebbe potuto svolgere un’indagine più rapida sull’episodio del 20 novembre 2015 e sulle altre denunce della ricorrente».

Strasburgo: «Autorità nazionali avrebbero dovuto sapere del rischio reale e immediato»
La Corte sostiene inoltre che «le autorità nazionali sapevano o avrebbero dovuto sapere che esisteva un rischio reale e immediato di violenza nei confronti della ricorrente a seguito della violenza commessa da L.B. e avevano l’obbligo di valutare il rischio della sua ripetizione e di adottare misure adeguate e sufficienti per proteggere la ricorrente e i suoi figli». In più «sulla base delle informazioni che erano note alle autorità al momento dei fatti e che indicavano che esisteva un rischio reale e immediato di ulteriori violenze contro la ricorrente e i suoi figli, di fronte alle accuse del ricorrente di escalation della violenza domestica, le autorità non hanno esercitato la dovuta diligenza. Non hanno effettuato una valutazione del rischio di maltrattamento che avrebbe specificamente preso di mira il contesto della violenza domestica, e in particolare la situazione della ricorrente e dei suoi figli, e che avrebbe giustificato misure preventive concrete per proteggerli dai danni di un tale rischio. Ritiene pertanto che le autorità siano venute meno al loro obbligo positivo ai sensi dell’articolo 3 di proteggere la ricorrente e i bambini dalla violenza domestica commessa da L.B»

Dal giudice europeo cinque casi di condanna in cinque anni
I casi di condanna dell’Italia, come suddetto salgono, dunque a cinque. Oltre a quello De Giorgi, assistita dall’avvocato Marcello Stellin, nell’aprile scorso Strasburgo ha condannato lo Stato italiano per non aver intrapreso le azioni necessarie per proteggere una mamma e i suoi due figli dalla violenza domestica inflitta dal suo convivente, violando l’articolo 2 della Convenzione sul diritto alla vita. Nel 2018, dopo anni di maltrattamenti e denunce, l’uomo ha ucciso il figlio di un anno e tentato di ammazzare la donna.

Quasi un anno fa, a maggio del 2021 nel caso J.L., l’Italia è stata condannata dal giudice di Strasburgo per violazione della vita privata e familiare, nel corso dell’iter giudiziario, nei confronti di una giovane, presunta vittima di stupro (i fatti risalgono a luglio 2008). Sotto i riflettori della Corte in particolare le parole usate nella sentenza della Corte di Appello di Firenze che ha ribaltato la condanna di sette giovani per stupro di gruppo nei confronti della giovane. Una decisione, ha commentato il giudice europeo, piena di stereotipi contro le donne, vittimizzazione secondaria, passaggi irrispettosi della vita privata.

Risale al 2018 un’altra condanna per il caso di una minorenne vittima di violenza sessuale e  induzione alla prostituzione. Per i giudici europei sono state le lungaggini processuali e amministrative, e in particolare il mancato tempestivo collocamento in una struttura protetta da parte del Tribunale dei minorenni e dei servizi sociali, ad aver esposto la ricorrente alla violenza sessuale e all’induzione alla prostituzione ad opera di altri concittadini.

Risalendo nel tempo si arriva al caso Talpis. Il nostro Paese è stato condannato per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito, atti che hanno poi portato all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie.  Si tratta della prima condanna dell’Italia da parte della Cedu per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica.

Italia sotto vigilanza rafforzata dal caso Talpis del 2017
L’Italia, già all’epoca del caso Talpis del 2017, è stata posta sotto sorveglianza rafforzata, con l’avvio della procedura di esecuzione davanti al Comitato dei ministri del Consiglio D’Europa che, nel bilancio d’azione di ottobre 2020, pur lodando gli sforzi compiuti dalle autorità per prevenire e combattere la violenza, non si è detto soddisfatto. L’organo esecutivo sottolineava l’importanza cruciale di una risposta “adeguata, efficace e rapida” da parte delle forze dell’ordine e della magistratura agli atti di violenza domestica per garantire la protezione delle vittime e, nel contempo, garantire loro accesso effettivo a un sostegno e un’assistenza adeguati.  «L’Italia – ricorda Carrano, avvocata e già presidente di D.iRe – Donne in rete contro la violenza – avrebbe dovuto dare una nuova risposta, nell’ambito della procedura di sorveglianza avviata dal Consiglio d’Europa, entro il 31 marzo del 2021. Risposta che, al momento, non è arrivata. Il governo ha presentato un bilancio d’azione e altri documenti, il caso è stato esaminato ancora nel 2020 ma la risposta è stata parziale. Dire è parte di questo processo di monitoraggio all’italia, abbiamo depositato delle note dove abbiamo contrastato ciò che lo stato aveva fornito come indicazioni. Secondo il comitato è fondamentale, per una valutazione, che le autorità forniscano rapidamente le informazioni complete e i dati statistici sull’impatto delle misure adottate. In più il comitato  ha espresso preoccupazioni per l’elevato tasso di procedimenti penali riguardanti violenza sessuale e domestica che si risolvono con archiviazione: sono oltre il 50 per cento».

Profili di vittimizzazione secondaria nei casi di condanna di Strasburgo
Nel caso De Giorgi, come nel caso Landi e Talpis, ci sono tanti aspetti che si possono ascrivere al fenomeno della vittimizzazione secondaria, se si considerano, ad esempio, le carenze riscontrate tra le autorità italiane nel proteggere la donna durante l’iter che parte con la denuncia. La vittimizzazione secondaria, infatti, si realizza quando la donna, già vittima di violenza per mano dell’uomo maltrattante, diventa nuovamente vittima poiché lo Stato, le istituzioni, la magistratura, non la proteggono in modo adeguato. L’azione di Strasburgo, conclude l’avvocata Carrano, “è molto importante, anche perché  la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non fa riferimento esplicito alla violenza contro le donne, ma è proprio la giurisprudenza della Corte che sta mostrando una tendenza apprezzabile sul tema. Riconosce, infatti, la portata del contesto della violenza domestica, il contenuto discriminatorio dell’inazione delle autorità, il tutto integrato con una prospettiva di genere”. L’Italia, infine, è entrata sotto vigilanza rafforzata anche nel caso della condanna del giudice europeo per il presunto stupro della Fortezza da Basso, un altro caso emblematico di vittimizzazione secondaria.

***
La newsletter di Alley Oop

Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.

Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com

  • Rina Salis |

    Sono una psicologa e mi interessano le motivazioni delle sentenze sulla violenza di genere della Corte di Strasburgo

  Post Precedente
Post Successivo