Che cosa vediamo, quando guardiamo i nostri figli?

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Quando comincia la nostra incapacità di vederci gli uni gli altri per come realmente siamo? Il dubbio c’è – e ha fondamenta solide – che cominciamo a vedere le persone come vorremmo che fossero o come un riflesso di noi stessi sin dal momento in cui nascono. Vestiamo persino il corpo minuscolo dei nostri neonati delle aspettative e proiezioni che ci provengono da un misto tra influenza sociale, culturale e personale. Quel che il mondo dice che sei, quel che la società vuole, quel che io mi aspetto. E’ un’armatura di piombo che trasmettiamo ai nostri figli come un’illusione di sicurezza e protezione, e che diventa velocemente una barriera che ostruisce la vista tra noi e loro. Tra noi e gli altri. Come se perdessimo, semplicemente, la capacità di vedere.

E intanto cresce il malessere dei ragazzi, che la pandemia sembra aver esacerbato, aumentando la loro solitudine e invisibilità: una metanalisi di Jama Peddiatrics indica che un adolescente su 4 ha sintomi di depressione da Covid, uno su 5 segni di disturbo d’ansia. E noi siamo disarmati, non sappiamo abbastanza. Le voci dei nostri figli sono purtroppo voci di minoranza, per quanto riguarda ciò che possiamo apprendere dai canali tradizionali. Pensiamo allo spazio che hanno i giovani sui media e al pericolo della storia unica che imprigiona loro come tutte le voci minori, facendocele conoscere solo attraverso degli stereotipi. Non sbagliati: incompleti. Parziali, semplificati e mutilati di gran parte della loro bellezza e verità. Noi non vediamo loro e loro non vedono noi: tutti proiettiamo e rafforziamo idee di realtà, le ombre della caverna platonica che sono solo un pallido ricordo di ciò che ritraggono.

Ma c’è un mondo, nascosto dentro ai nostri figli, e il coraggio di vederlo ci renderebbe liberi. Noi e loro: la debolezza di un padre libera il figlio dall’ansia di perfezione (quale regalo vale di più?) e la profondità di un figlio meriterebbe romanzi interi che facciano spazio a tanta vita. Ecco, per esempio, la storia di Anna: ha 20 anni e racconta in una lettera la sua adolescenza.

Sono sempre stata molto sola per una grande incapacità di scendere a compromessi con le persone e una mia grande difficoltà a fingere. Non sono mai riuscita a cambiare il mio modo di essere pur di piacere a qualcuno. Il che portava le persone ad allontanarsi da me. Ero la tipica persona scomoda perché dice cose scomode, che tutti in un certo senso ammirano, ma io intanto mi morivo di solitudine. Ero l’amica di tutti e di nessuno.
Mi ricordo i pianti sotto la doccia per soffocare il rumore a soli 13 anni ed il dolore era così forte da mancarmi il fiato. Provavo delle emozioni così intense che non riuscivo a contenerle. Strabordavano letteralmente dal mio corpo e mi circondavano.
Mi vergognavo tantissimo, mi sentivo l’unica in grado di provare un dolore del genere. Non riuscivo a condividere questo mio stato con nessuno.
Ho sviluppato una grande insofferenza verso le persone e ho sempre avuto una grande difficoltà a stringere legami forti. La mia solitudine era così totalizzante da impedirmi di avvicinarmi alle persone attorno me, ero come paralizzata. Mi circondavo di un’aura di mistero che costruivo da sola per mascherare la grande solitudine e ansia sociale che provavo.

Ha sempre funzionato, ma dentro morivo.

Questo riassume tutta la mia adolescenza. Ero una ragazzina in balia delle emozioni più potenti, non le riconoscevo e non le capivo.
Al culmine del mio malessere, avevo 15 anni. Dopo aver trascorso le elementari a barcamenarmi tra i ragazzini a scuola che mi davano i pizzicotti per il puro piacere di farmi venire i lividi, la fatica di dover essere perfetta di fronte ai miei genitori, a dovermi guadagnare quotidianamente l’amicizia e l’approvazione tra i compagni di scuola, di scout, di nuoto. Poi si passa alle medie, un mondo apparentemente meno duro perché ero riuscita ad entrare nel gruppo giusto, ma non giusto per me. Era una sfida quotidiana e ogni giornata finiva in abbuffate di cibo, era la mia valvola di sfogo, lo è stata per molto tempo. Ho cominciato a fumare. Ho lasciato il nuoto e sono ingrassata a dismisura. Io volevo fare cavallo. Ma, come ogni cosa che mi riguardi, non ho mai insistito abbastanza.

Considerate tutte queste premesse, tra cui un esame di terza media da dimenticare per quanto è andato male, il primo liceo non aveva le basi per cominciare bene. E, senza sorprese, così è stato. La bastonata finale per quanto mi riguarda. I miei genitori erano esauriti. Le mie amicizie sparite dinnanzi a una ragazzina con una tale potenza di infelicità che nell’ambito sociale veniva proiettata con stranezze incomprensibili ai miei coetanei. Mesi e mesi di assenza da scuola, nessuna vita sociale, nessun contatto fisico, nessuna parola.

I professori che si rivolgevano senza speranza ai miei genitori, i miei genitori che si rivolgevano senza speranza alla psicologa, io che senza speranza vivevo una vita a metà.

Ero incapacitata ad alzarmi dal letto, non mi lavavo, non mi curavo di me, non coltivavo né interessi né rapporti con gli altri. Sono andata avanti così per molto, tra le urla dei miei genitori, trascinata a scuola di forza, per poi scappare una volta che si giravano e passare le giornate a vagabondare. Le urla dei professori e le minacce di bocciarmi. La nonna, che era stata incaricata di portami una volta a settimana dalla psicologa senza che mi fosse mai stato chiesto. Mio padre, che mi trascinava al circolo di canottaggio per farmi appassionare a qualcosa e io che, invece di entrare, aspettavo fuori finché alla fine delle due ore non mi tornasse a prendere. La mia totale incapacità a vivere e la forte infelicità che mi perseguitava. Solo a ripensare e a scrivere di quel periodo mi si accorcia il respiro e sento il malessere salire su dallo stomaco fino alla gola che si chiude e gli occhi che bruciano.

Io così ho passato ogni giorno per almeno due anni della mia vita. Tra abbuffate, pianti e sensi di colpa.

La cosa peggiore era vedere i miei genitori in balia del mio malessere, incapaci di gestirlo. Ho avuto attimi sereni, ma è un periodo che ricordo con tanta tristezza e rimpianto per tutte le esperienze che non sono riuscita a vivere e per la sofferenza e la preoccupazione che ho causato. Io avrei voluto che fosse stato fatto di più per me. E’ stato fatto molto, ma ogni cosa e ogni misura che è stata presa era fondata sul fatto che io fossi il problema, che io fossi strana e che dovevo essere riparata prima che fosse troppo tardi. Io ero spaventata e avrei voluto essere ascoltata di più e capita di più. Ero sola, nella disperazione più totale, invidiosa dell’apparente spensieratezza dei miei coetanei, quando il mio unico pensiero ricorrente ero quello di morire, ma non potevo per la paura del dolore che avrei lasciato alle mie spalle dopo un gesto simile.
Ogni giorno aprivo WhatsApp nella speranza che qualcuno mi avesse scritto. A nessuno interessava avere a che fare con una persona rotta come me”.

Conosco Anna da quando è nata e l’ho scoperta per la prima volta grazie a questa lettera. Quella di Anna è una storia tra tante: quante altre simili e inascoltate ne abbiamo intorno a noi?
Che cosa vediamo davvero, quando guardiamo i nostri figli? E quanto sappiamo realmente di ciò che loro vedono di noi?

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  • Alina |

    Se nostro figlio ha un problema cardiaco sappiamo cosa fare, lo portiamo da chi puo‘ curarlo, lo aiutiamo nella convalescenza e nel recupero. Gli chiediamo come sta, cosa fa per stare meglio, gli spieghiamo cosa ha fatto il medico per farlo guarire e come sara‘ la cura. Se un amico soffre di un disturbo di ansia o di depressione, siamo spaventati, ci sentiamo in colpa, a volte ci vergogniamo persino. Lo portiamo tardi da chi può curarlo, a volte troppo tardi. Non sappiamo riconoscere i sintomi, diciamo e ci dicono „passerà“. Non ci verrebbe mai in mente di dire „passera‘“ davanti ad un problem al cuore. Si chiama stigma, è il peggiore dei mali e colpisce la salute mentale più di ogni altra cosa. Viene dall‘idea che se si ha un disturbo della salute psicologica non si guarirà piu‘ e questo non è vero affatto, come sanno tutti coloro che ci sono passati, si sono curati e ora hanno una vita normale. Come dopo un infarto ci saranno delle precauzioni da prendere, ma si vive una vita piena e felice.

  • Gloria DI Rienzo |

    La nostra società è fondata sull’apparire,su cluchè,su steoreotipi e tante rigidità mentali.Ci si deve adeguare,si deve fare squadra,bisogna avere molti amici, bisogna guadagnare molto eccEvviva la libertà di essere come si vuole essere senza che questa libertà infici la dignità,il rispetto per ognuno.C’è davvero più patologia oggi che in passato chissà!! È vero la vita è diventata più complessa ,più tecnoligia e molte cose si sono perse ma anche molti malesseri passeggeri subito vengono catalogati, schedati ,e additati
    Cerchiamo di essere sempre equilibrati,l’estremismo sia da un lato che dall’altro deve essere sempre evitato
    Cerchiamo di costruire e non di distruggeresolo perchè apparteniamo a tizio o a caio.Il mondo nonostante tutto èbello e battiamoci per questo.Viva la libertà di espressione

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