Il well-being in azienda si è reso oggi più che mai necessario: stare bene (anche) per lavorare meglio. A patto che non si promuova il benessere per nascondere gli scheletri nell’armadio. Sulla scia del più noto greenwashing, si può infatti parlare di well-being washing per indicare tutte quelle attività volte a dipingere, internamente e spesso esternamente, la propria realtà come attenta al benessere delle sue persone, sebbene le cose vadano in maniera totalmente diversa.
Per riconoscere il benessere di facciata, ci sono tre segnali che si possono facilmente cogliere: la superficialità delle iniziative, la mancanza di coinvolgimento di chi ha ruoli di responsabilità e la presenza di soluzioni “one size fits all” (taglia unica).
Superficialità delle iniziative
Ricordo un intervento in cui Simon Sinek scherzava sulla presenza di frutta e pouf in ufficio per soddisfare le aspettative dei Millennials. La superficialità sta proprio qui: nell’affrontare il benessere attraverso lezioni di yoga, spremute d’arancia e tavolo da ping pong negli spazi comuni. Per essere davvero efficaci, le azioni di well-being devono essere capillari, diffuse e continuative nel tempo. Non è sufficiente parlare di benessere, invitando esperti del settore a condurre un webinar o un talk una volta a semestre. È necessario impegnarsi giorno per giorno, attraverso servizi che rispondano alle reali e più profonde esigenze delle persone.
La palestra in azienda può essere un benefit, ma non impatterà sul benessere psicofisico degli individui quanto può fare, ad esempio, una positiva e distesa relazione con il proprio capo. La superficialità di certe iniziative, infatti, sposta la responsabilità: le persone sono stressate? Vanno in burnout? Offriamo loro sessioni di Mindfulness e staranno meglio. Non funziona così. Non si può stare bene se non si agisce sulle condizioni che generano malessere. Il rischio, è medicare la ferita senza intervenire su ciò che la fa sanguinare.
Mancanza di coinvolgimento di chi ha ruoli di responsabilità
Ho citato la relazione con il proprio capo non a caso: se manca il coinvolgimento del management nei programmi di well-being, questi non potranno mai dirsi tali.
Lo sapeva bene una partecipante ad una formazione a tema gestione dello stress che condussi una volta. Mi disse: perché ci siamo noi, qui? Il pesce puzza dalla testa. I responsabili, infatti, sono spesso la prima fonte di malessere per le persone in azienda. Se, in aggiunta a ciò, non vengono formati e sensibilizzati alla cura e al benessere di chi lavora con loro, finiranno per alimentare quel meccanismo che le iniziative di well-being tentano di arginare.
La differenza, la fa la cultura organizzativa. Il well-being è un costrutto complesso e in continua evoluzione: servizi di supporto psicologico, formazione mirata, iniziative che conciliano i ruoli di vita sono tutte soluzioni utili, ma per essere davvero efficaci hanno bisogno di una cultura del benessere, che parta proprio da chi ha ruoli di responsabilità. Serve una strategia e un impegno a lungo termine, ecco perché oltre a stabilire KPI è essenziale e prioritario formare i leader.
Soluzioni “one size fits all”
Ho sempre trovato snervante la taglia unica nei capi di abbigliamento: finisce per andare bene alla maggioranza delle persone, ma non si adatta mai perfettamente a nessuna. Lo stesso avviene con le iniziative di well-being. A volte sono talmente general generiche da apparire irrilevanti. O funzionali solo a chi già sta bene.
A monte di ogni azione che un’azienda rivolge al benessere, dovrebbe esserci l’ascolto dei bisogni. Si corre il rischio, altrimenti, di (ri)cadere nella superficialità già descritta o, peggio, di investire risorse in soluzioni che sembrano sufficientemente buone, senza riuscire però ad ottenere risultati. “Com’è possibile che con tutto quello che diamo loro, le persone continuino a lasciare l’azienda?” mi ha domandato una volta un manager, mettendo perfettamente in luce la differenza tra fermarsi ad analizzare cosa c’è che non va e offrire soluzioni pensando di conoscere già il problema.
Il well-being è qui per restare: è diventato ormai una leva strategica per l’attrattività dei talenti, un elemento chiave per la performance, un ingrediente fondamentale per coinvolgere e fidelizzare le proprie persone. Proprio per questo, non può essere un’iniziativa una tantum, ma deve diventare, di fatto, parte essenziale della cultura organizzativa, indissolubile dai processi aziendali. Il well-being non è qualcosa che si fa, come può essere il sempre più vecchio concetto di welfare, quanto, piuttosto, qualcosa che si è. E far finta di essere, si sa, non passa mai inosservato.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.