Sono i caduti della Guerra d’Etiopia, che la scrittrice Maaza Mengiste fa rivivere in “Il re ombra”, romanzo vincitore del premio Gregor Von Rezzori e finalista al Booker prize (che avrebbe indubbiamente meritato), magistralmente tradotto dall’inglese da Anna Nadotti. Narratrice di raro talento, racconta la storia delle donne che, come la sua bisnonna, combatterono insieme agli uomini l’aggressione fascista, “e che tutt’oggi non sono che righe incerte in documenti sbiaditi”.
Ombre di una vicenda a sua volta ancora in ombra, quella dell’occupazione italiana del Corno D’Africa e dei crimini di guerra qui perpetrati dalle truppe di “Mussoloni” (così sull’altopiano storpiano il nome di colui che li ha storpiati, facendo piovere iprite). Una vicenda di cui il nostro Paese si ostina a essere immemore. “Un osso brucia spogliandosi della carne (…) Diranno che non è vero (…) Negheranno i bambini morti, le donne scorticate, le acque avvelenate”, scrive Mengiste. E ancora: “È impossibile, pensò Hirut, bruciare così senza fuoco, soffocare così, alla luce del giorno. Impossibile che uno respiri e soffochi, che sia vivo e stia morendo”.
Una tragedia che già altre scrittrici, in questo caso italofone, negli ultimi quindici anni hanno cercato di disseppellire: da
Martha Nasibù (
“Memorie di una principessa etiope”, Neri Pozza, 2005), a
Carla Macoggi (
“Kkweya”, Sensibili alle foglie, 2011), da
Gabriella Ghermandi (
“Regina di fiori e di perle”, Donzelli, 2007) a
Francesca Melandri (“Sangue giusto”, Rizzoli, 2017), da
Igiaba Scego (
“La mia casa è dove sono”, Rizzoli, 2010,
Adua, Giunti, 2015) a
Ubah Cristina Ali Farah di cui ai primi di luglio uscirà il nuovo romanzo
“Le stazioni della luna” (66thand2nd), un’altra storia di donne coraggiose e matrimoni combinati, in questo caso ambientata nel mezzo delle rivolte per l’indipendenza della Mogadiscio degli anni Cinquanta.
“Per quanto tempo [i morti] si sono sollevati e sgretolati davanti alla sua rabbia, cedendo alla vergogna che tutt’ora la paralizza? Ora li sente”. Scrive Mengiste. Hirut apre allora la cassetta di latta che tiene stretta a sé. Fuoriescono foto che riavvolgono il passato a partire da quando, ragazzina orfana di madre e di padre, viene presa come serva nella casa dei nobili Kidane e Aster, amici di famiglia. Due anni prima Aster aveva perso il suo unico figlio, morto bambino. Distrutta da un dolore che abbraccia ogni aspetto della sua esistenza, ben presto s’ingelosisce della bellezza e della fertile giovinezza di Hirut, le due doti che per una donna più contano per trovare e mantenere un posto nel cuore di un uomo e dunque nella società dell’epoca, le due doti che le stanno sfuggendo.
Aster che, come sua madre prima di lei, all’età di Hirut era stata sposata a forza a Kidane – e in cui ancora scorre gelida l’ira per lo stupro della prima notte di nozze – riversa la sua frustrazione sulla piccola, arrivando a sfigurarne il bel collo a colpi di frusta, mentre si autodistrugge macerandosi nel dolore e tiranneggiando Kidane. I mesi scanditi dal regolare ritornare delle mestruazioni.
Arriva invece la guerra. “Il tempo è collassato e c’è soltanto questo: un’invasione”. Aster si desta. Vestitasi con gli abiti di Kidane e il mantello del suocero guerriero, sprona le donne alla rivolta e alla resistenza, sfondando l’opposizione del marito e le linee del nemico. Al suo fianco, dapprima suo malgrado, Hirut, a sua volta violentata ripetutamente da Kidane. Votatosi a morte certa continuando la guerriglia dopo che l’imperatore Hailé Selassié ha abbandonato il Paese – impossibile fronteggiare un esercito moderno dotato di fucili, aerei, carri armati e gas nervini con i suoi soldati armati di niente – Kidane cerca anche in questo modo di lasciare una sua traccia nel mondo.
Come se lo stupro l’avesse fatto lei, Hirut, che un tempo poteva parlare con spavalderia “perché qualcosa in lei rimaneva intatto”, è isolata da tutti e da tutte. “Una volta le bastava la volontà per entrare nelle stanze, arrampicarsi sui colli e guardare i fiumi. Una volta pensava di appartenere a sé stessa”.
Ritroverà la sua interezza solo nell’azione. Combatterà perché, anche da questo,
“non c’è via d’uscita se non attraverso”,
“non c’è via di fuga se non da dentro”. Lo sanno le mogli bambine, le
donne costrette a vivere in un mondo dove per loro non c’è giustizia come Aster e Hirut, ma anche come la materna cuoca che per due volte si sacrifica per salvarle da ragazzine, o la bella e intelligente Fifi, figlia letterata di un ricco mercante che si prostituisce coi gerarchi italiani per carpire loro informazioni di prima mano e usarle per dirigere la resistenza e suggerire imboscate (naturalmente fingendosi un uomo), fieramente disprezzata dal vero mercenario, Ibrahim, comandante degli ascari che proteggono gli italiani. Lo ripete il coro, cui Mengiste dà talvolta la parola arricchendo di un’eco tragica una narrazione epica nell’incedere – non è un caso che in esergo vi siano un passo dell’
Iliade e dell’
Agamennone di Eschilo: i classici qui affiorano carichi di nuovi ed eterni significati, come in altri giovani autori africani, da
Chigozie Obioma (“
I pescatori”, Bompiani, 2016), alla stessa
Ali Farah.
Personaggi memorabili e caleidoscopici – vittime e carnefici, vittime carnefici e carnefici vittime – si svelano alla narrazione. Dall’altra parte il nemico, Carlo Fucelli, già comandante di spaventosi campi di concentramento in Libia, ed Ettore, il suo fotografo, figlio ignaro di un ebreo scampato ai pogrom del 1905 per cui nascondere il suo passato è stato l’unico modo che gli era rimasto per sperare di essere capito. Ettore che non sa essere testimone di ciò che fa: “archivista di oscenità”, lascia i suoi scatti (“figure deformate da ombre obbedienti”) alla propaganda, agli Indro Montanelli, Herbert Matthews, Evelyn Waugh, che “guarderanno con il binocolo quella fragile pista che s’inerpica con decisione da Asmara fin quasi ad Addis Abeba e parleranno del sole e delle farfalle, del caldo e dell’altitudine, di capanne decrepite e di indigeni non lavati”.
Ettore, l’uomo distrutto dal rimorso che la vecchia Hirut sta aspettando alla stazione. La guerra è finita, Mengiste l’ha raccontata. Ma ha soprattutto raccontato un’altra violenza, in corso da migliaia d’anni: quella costante e ubiqua che le donne subiscono fin dall’infanzia nelle società dove sono discriminate, violenza che deforma la loro personalità (“ciò che viene forgiato nella memoria s’infila nelle ossa e nei muscoli. Ci resta per sempre e ci segue nella tomba”), ma anche i rapporti con le altre donne e la comunità tutta.