Dallo sport alle imprese, quanto i leader sono in grado di comunicare?

pexels-patrick-case-3800510

“Serve un tiro a colomba”; “Non essere molle, nuota!”; “Tutta, giocala tutta!”; “Dovete tirare meglio!!!” “Perché non volete capire??”. Essere sul piano vasca durante una partita di pallanuoto offre tanti spunti di riflessione, soprattutto quando non ci si trova lì per allenare o per dare un contributo alla partita. Queste erano infatti le grida di un giovane allenatore rivolte ai suoi ragazzi in acqua ed io mi trovavo poco distante da lui, nella postazione riservata al telecronista. Durante questo periodo di Covid-19, che non consente alle tifoserie di accompagnare e supportare le squadre, mi sono infatti reso disponibile per fare le telecronache in diretta per le squadre dei miei figli e ho iniziato a vivere il bordo vasca da una prospettiva differente.

La partita in questione vedeva in campo ragazzi poco meno che tredicenni e la squadra a cui veniva, con pochissima chiarezza, chiesto di “tirare meglio e a colomba, ma non essendo molli e giocandola tutta” era quella degli avversari di mio figlio e dei suoi compagni.

Il coach “rivale” appariva in difficoltà, ma, incredibilmente, invece di far mente locale e sostenere i suoi ragazzi, sembrava voler far trasparire sicurezza tramite un discutibile ma apparentemente erudito gergo pallanuotistico. Inoltre, sembrava caricarsi di frustrazione ad ogni errore dei suoi giovani atleti, rei di non capire le sue indicazioni e, di conseguenza, “colpevoli” di subire il gioco dell’altra squadra. Oggettivamente la nostra compagine stava vincendo in maniera netta, ma gli avversari in campo avevano ancora tanto tempo e tanta voglia di far bene. Nonostante la possibilità di rimonta, apparivano invece distratti e spaesati dalle indicazioni che arrivavano dalla panchina che non li aiutavano a focalizzarsi sul gioco in campo. Ogni componente del team non sapeva più se ascoltare l’allenatore o muoversi per conto proprio, rischiando di giocare da solo e perdendo completamente di vista il far parte di una squadra.

Per anni sono stato un giocatore di pallanuoto. Per tutto quel periodo non mi sono mai reso conto di aver avuto allenatori con una dote fondamentale: erano capaci di comunicare. La mia crescita come atleta e come pallanuotista è passata senza dubbio per questa grande fortuna: indipendentemente dalla lingua di origine (ho avuto allenatori provenienti da diversi Paesi europei) i miei coach sapevano farsi capire e sapevano usare i mezzi giusti per coinvolgere, incoraggiare e guidare i propri atleti.

Ho ripensato agli ultimi anni in cui ho allenato squadre di giocatori adulti e ho ripercorso i momenti di successo e quelli di insuccesso. Mi sono reso conto che da allenatore ho clamorosamente perso partite in cui la mia frustrazione prendeva il sopravvento e, invece di osservare il gioco, ascoltare le difficoltà dei miei atleti e “comunicare” con loro, rimanevo concentrato sulle mie idee ed urlavo direttive inefficaci e a voce sempre più alta.

In effetti, “Tira in porta” non è una grande indicazione strategica per vincere una partita e, di sicuro, gridarla a tutto fiato non genera certo maggiore probabilità di successo ne rivolgendosi a giovani pallanuotisti ne a persone più mature.

Gli incontri in cui, al contrario, riuscivo ad esser presente, a disposizione dei miei atleti, attento al gioco e capace di ascoltare le riflessioni del capitano e dei giocatori che stavano vivendo il campo, erano da me gestiti con maggiore calma e sicurezza: nei time out c’era spazio per sottolineare le azioni ben fatte e da ripetere, così come gli errori da comprendere e da evitare. Le parole semplici ed il gergo della squadra diventavano il modo immediato per capirsi e per allinearsi e, così facendo, spesso si vinceva.

Quando ripenso a questi aspetti e li correlo alla mia vita in azienda, mi accorgo che alcune grandi difficoltà causa di insuccessi, venivano da me spesso imputate alla mancanza di strategia o di pianificazione. Oggi rifletto invece su come probabilmente potessero esser ascritte ad una bassa efficacia nella comunicazione della stessa strategia e ad una non chiarezza degli obiettivi individuati. Anche progetti molto semplici rischiano di fallire quando il messaggio trasferito a colleghi e collaboratori risulta confuso. Non è sufficiente incitare o dirigere la squadra per ottenere un risultato, bisogna innanzitutto comprendere l’importanza di adattare la nostra comunicazione per favorire la comprensione del messaggio da parte del nostro interlocutore.

E allora riecheggiano forti le parole dell’allenatrice della squadra di mio figlio che nella stessa partita ai ragazzi si rivolgeva così: “in difesa stai al massimo a un braccio di distanza dall’uomo che marchi”. Un braccio, non un metro o una “yarda”. Il linguaggio è facile, immediato e chiaro per tutti.

“Bravo! Quando sei in fuga continua a nuotare a testa alta e a girarti per sapere sempre dov’è la palla”. Partire con quel bravo e rimarcare una cosa ben fatta, anche di fronte ai compagni, quanta fiducia può trasmettere a chi è in campo!

E ancora al portiere: “Nelle respinte va bene anche se la butti in corner, prima pensa a prenderla poi impareremo a tenerla vicina”. Piano d’azione chiaro e rassicurante: definisce cosa fare ora e infonde fiducia per un miglioramento progressivo.

L’arma vincente in questo caso è stata un linguaggio alla portata dei ragazzi, che hanno capito al volo le indicazioni per condurre il gioco e allo stesso tempo hanno continuato a trovare motivazione nelle stesse semplici cose che riuscivano a fare.

Ma allora perché molte, troppe volte ci sembra più efficace un linguaggio fatto di parole complesse e frasi contorte? Perché siamo convinti che alzare il tono aumenti la credibilità di ciò che diciamo? Cosa ci fa credere che l’inglesismo possa avere più impatto di una parola corretta e coerente nella nostra lingua?  Ci rivolgiamo mai la domanda più importante: stiamo cercando di farci capire o vogliamo apparire più sicuri grazie all’uso di un linguaggio apparentemente forbito?

Pur non avendo risposta a tutte queste domande, ritengo che un buon punto di partenza sia prendere in considerazione con maggiore consapevolezza e con maggiore auto-critica la nostra capacità di ascoltare, di saper entrare in sintonia con gli altri e di adattare la comunicazione alle caratteristiche di chi abbiamo di fronte. Molto spesso diamo per scontato che la capacità di saper trasferire un contenuto sia correlata al livello di conoscenza. Non di rado, quando ci sentiamo capaci ed esperti rispetto ad un determinato argomento, cadiamo nel tranello di ritenerci anche abili comunicatori in quel campo. Ma non è sempre così!

Un modo semplice per testare l’efficacia espositiva può esser quello di chiedere un riscontro diretto ai propri interlocutori di ciò che è stato comunicato… se avete il coraggio di osare nel farlo, siate aperti alle risposte e pronti a ricevere sorprese divertenti.

A questo proposto, chissà all’interno di queste righe sarò riuscire a passare un messaggio di elogio alla capacità di ascoltare ed alla comunicazione semplice e adatta all’interlocutore?

  • Rosella Terzolo |

    Jacopo sei grande! Come sempre, del resto, hai sintetizzato la mia esperienza ventennale di giudice di pace di provincia: saper ascoltare e comunicare in modo che anche l’interlocutore “non tecnico” possa capire… grazie caro amico.

  • Lorena Macchi |

    Bravo Jacopo , Hai centrato il punto, l’ascolto richiede una concentrazione e attenzione all’interlocutore che pochi hanno sviluppato nel corso della loro esperienza di vita.
    Credo che prima di Voler a tutti costi trasmettere le proprie idee, strategie e progetti sia importante capire in base alla platea o l’interlocutore che abbiamo di fronte se Il nostro linguaggio è in sintonia con loro. Questo significa imparare a sviluppare diverse forme di comunicazione .

  • gloria |

    Mi congratulo con Pasetti per aver messo in evidenza la fondamentalità e l’efficacia della comunicazione e non solo ma di una comunicazione semplice e dell’ascolto

  Post Precedente
Post Successivo