“E’ in atto un processo alla vittima da parte di personaggi che hanno la capacità di orientare il pensiero comune in un tema di grande sensibilità. I processi vanno fatti nei tribunali”. E’ netta la posizione di Fabio Roia, magistrato da anni impegnato nella lotta alla violenza contro le donne, sul video in cui Beppe Grillo difende il figlio, indagato insieme ad altre tre persone per violenza sessuale nei confronti di una ragazza di 19 anni.
“Perché una persona che viene stuprata la mattina, il pomeriggio va in kite surf e dopo otto giorni fa la denuncia?” si è chiesto il leader dei 5Stelle, mentre la moglie Parvin Tadjik ha parlato di “un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare“. Ecco che, come ancora troppo spesso accade, ad essere messo sotto la lente è il comportamento della donna che denuncia, invece che quello di chi viene denunciato. Innocente fino a prova contraria il presunto aggressore, già colpevole, invece, la vittima. Se si denuncia un furto, per esempio, difficilmente la “colpa” viene ricercata nei comportamenti di chi è stato derubato, non così nella violenza di genere.
“Non esiste uno stereotipo di vittima, non esiste una vittima ideale – continua Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano – Si è molto criticato il fatto che la ragazza non abbia denunciato subito. La nostra legge – il Codice rosso – oggi consente a una ragazza vittima di stupro di arrivare fino a un anno, che è il termine per la presentazione della querela. Questo perché ogni donna vittima di stupro ha i suoi tempi di meditazione, di riflessione e di risposta, invece qui si sta dicendo che se non si denuncia subito non si e’ credibili. Non possiamo pensare a donne vittime di violenza sessuale che reagiscano tutte allo stesso modo, questo è un messaggio devastante e sbagliato”. Il Codice Rosso, infatti, ha allungato i tempi per presentare la denuncia, da 6 a 12 mesi, proprio perché quelle di violenza domestica, violenza sessuale, violenza di genere non sono denunce facili da presentare. Secondo i dati, a un aumento dei casi, delle richieste di aiuto, non corriponde un aumento delle denunce: solo il 14,2% delle vittime che chiede aiuto al 1522 (il centralino del Dipartimento Pari opportunità) ha denunciato. Dai racconti alle operatrici del centralino emerge che la maggior parte non denuncia la violenza subita, proprio perché consumata in famiglia, con tutte le pressioni che questo comporta.
Ecco cosa significa rendere una donna vittima due volte
“Con il suo video sbraitante in difesa del figlio Ciro, Beppe Grillo mostra in tutta la sua evidenza il funzionamento della vittimizzazione secondaria: le donne non sono credute, la violenza viene minimizzata, il comportamento della ragazza giudicato quasi fosse lei l’accusata”, le parole di Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza. Dure le reazioni politiche, dal Pd a Leu, dalla Lega a Forza Italia e Fratelli d’Italia. A fine giornata sono arrivate anche le dichiarazioni di Giuseppe Conte. “Comprendo le preoccupazioni e l’angoscia di un padre, ma non possiamo trascurare il dolore delle altre persone, la giovane ragazza coinvolta e i suoi familiari” dice l’ex premier. Intanto da giorni la storia di una ragazza che a luglio 2019 ha raccontato di essere stata vittima di violenza sessuale è su tutti i giornali e tutte le tv. L’avvocata Giulia Bongiorno parla di “dolore amplificato”, fa sapere che la famiglia è “totalmente distrutta”.
Ancora una volta le donne non vengono credute
“Le donne che denunciano non vengono credute perché è la società che decide cosa è violenza e cosa non lo è. Chi denuncia da vittima diventa imputata”, sottolinea Luisella Porcu di D.i.Re. “La vittimizzazione secondaria consiste nel non dar credito al racconto e al vissuto delle donne dicendo che non era violenza, che la ragazza si stava divertendo, che era consenziente, che era solo un gioco. Significa non credere al significato che la violenza sessuale assume per ognuna di noi, a dare il significato è la società”, spiega Porcu. In merito ai tempi della denuncia, “ogni donna sceglie se denunciare e se parlarne perché sa esattamente che nel momento in cui ne parla la prima cosa che viene messa in dubbio è la sua credibilità. Dare il giusto nome al vissuto e all’esperienza presuppone un percorso, la denuncia è uno step successivo che potrebbe non arrivare mai. Una donna può anche non denunciare mai, perché sa a cosa va incontro. Questo non vuol dire che le donne non vadano sostenute, la Convenzione di Istanbul dice di sostenere tutte le donne anche se decidono di non denunciare”.
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