Le nostre vite non vanno più bene neanche per un film?

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Nelle mie sempre più frequenti serate davanti alla TV, inizio a sentirmi a disagio. Anche i film e le serie più recenti non parlano più di noi: del mondo in cui viviamo oggi. Sono film in cui nessuno indossa la mascherina, le persone si toccano, vanno a cena fuori, viaggiano. Se film così erano normali sei mesi fa, oggi sembrano foto di un mondo antico: sembra che registi, attori e sceneggiatori siano rimasti a vivere su un altro pianeta, dove la pandemia non c’è. Un pianeta fortunato: il pianeta del passato o – e sorge il dubbio che questa sia la speranza che vogliono tenere accesa – il pianeta del futuro. Nel frattempo, nel tempo presente, non ci sono più storie sul piccolo schermo che parlino di noi.

Le ragioni sono ovvie: soprattutto in Paesi come l’Italia, dove degli attori non arriva nemmeno la voce vera, a causa del doppiaggio, le sole mascherine basterebbero a togliere il 90% del gusto della recitazione, facendoci perdere facce ed espressioni dei personaggi. A ciò si aggiunge che rappresentare le limitazioni che ci sono oggi nelle nostre vite renderebbe molto difficile creare delle storie avvincenti: che plot potrebbe avere una storia senza incontri casuali, senza contatti fisici, senza viaggi, senza feste, cene, concerti, partite… senza quasi tutto?

Si, certo, io posso vivere senza mostrare le espressioni del mio volto e sopravvivere senza buona parte delle esperienze che davano un senso alle mie giornate, ma non ho voglia di passare anche le serate a guardare storie così. E quindi eccoci tutti improvvisamente appassionati di film storici oppure di fantascienza: il nostro svago è diventato guardare immagini di un mondo che non ci riguarda più, non ci rispecchia più. Non rispecchia la nostra quotidianità, non esprime le nostre reali possibilità: non parla di noi.

Si tratta di un effetto distonico simile a quello che hanno sperimentato le donne per i decenni in cui i protagonisti dei film sono stati nella stragrande maggioranza uomini, le persone di colore davanti alla produzione 100% bianca della vecchia Hollywood, gli omosessuali davanti a migliaia di film romantici etero: una situazione che stava lentamente cambiando grazie a un surplus di attenzione verso il “politically correct” da parte della produzione cinematografica statunitense, che aveva di recente realizzato fino a che punto ciò che vediamo nei film influenzi la nostra visione del mondo e quindi debba in qualche modo rispecchiarla. Ma questo è evidentemente troppo: questa realtà non riesce a produrre racconti.

Ci saranno film e serie “sulla” pandemia, ma non film e serie “con” la pandemia?

Questo modo di vivere, che ci riguarda tutti da dodici mesi e probabilmente sarà la nostra vita per almeno altri dodici, non offre dunque sufficienti sfumature per farvi accadere delle storie, per diventare arte? In realtà, stiamo tutti vivendo storie molto più lente, intime e diverse nel nostro nuovo modello di vita; e forse anche noi, come gli sceneggiatori dei film, le consideriamo un tempo sospeso, che non dovrebbe durare abbastanza a lungo da farci riorganizzare tutti i set e tutte le regole del cinema.
Nella TV, che intanto diventa sempre più grande per rimpiazzare cinema, teatri e aperitivi, vogliamo vedere il mondo che è stato e che sarà, vogliamo essere persone che si toccano e che si guardano. Vogliamo, insomma, che l’arte ci aiuti a mantenere la mente allenata alle mille possibilità che avevamo, senza accorgercene, quando vivevamo come oggi vivono solo i personaggi delle storie inventate… e gli abitanti della Nuova Zelanda.

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