Giorno della memoria, come raccontare ai ragazzi la storia?

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Nemmeno noi, che abbiamo visto, volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato da colpevole, diventare complice. Così, ricordo.

Il soldato russo Yakov Vincenko, all’età di 19 anni, è stato il primo a varcare i cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. Molti anni dopo, in un’intervista, è con queste parole che descrive il dolore che lo ha accompagnato per tanti anni e che non ha voluto dimenticare. Ricordo, dice, anche se non comprendo. Ricordo, anche se “quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero”. E nella sua testimonianza troviamo tutto il significato che sta dietro all’dea di “memoria”, così come la intendiamo in questo giorno particolare.

Il 27 gennaio, la Giornata della Memoria, è il giorno in cui siamo chiamati a ricordare gli eventi che nel corso della Seconda Guerra Mondiale portarono agli orrori della Shoah. Il giorno in cui la storia esce dai margini della razionale narrazione dei fatti per venire a occupare strati emotivi del nostro pensiero e divenire memoria collettiva, in un processo di elaborazione che non perde mai la sua necessità, la sua urgenza, il suo significato. 

Ma come raccontare gli eventi della storia via via che questi si fanno più lontani e i testimoni diretti fanno sempre più fatica a raggiungere le nuove generazioni? Come coinvolgere le nuove generazioni in questo processo di creazione e custodia della memoria collettiva? 

Matteo Corradini è da anni impegnato nel portare in scuole e teatri progetti di didattica della memoria. Scrittore, ebraista, Premio Andersen 2018, curatore dell’ultima edizione dei diari di Anne Frank per Rizzoli, da poco in libreria col suo nuovo lavoro “Luci nella Shoah”, edito da De Agostini. Lo abbiamo intervistato in diretta Instagram lo scorso 25 aprile, e le sue parole ci aiutano a capire come possiamo parlare ai ragazzi della Shoah, non solo nel giorno della memoria:

La mia generazione ha incontrato la storia attraverso persone che l’hanno raccontata – dice Corradini – Avevamo i nonni in casa che magari non avevano fatto i partigiani ma avevano visto i bombardamenti, la guerra gli eserciti. La generazione dopo di noi ha i nonni che sono nati dopo la guerra o comunque non la ricordano. Quando lavoro con le nuove generazioni devo dare per scontato che per loro la guerra è anagraficamente lontana. Devo partire da lì e capire in che cosa la storia assomiglia alle generazioni di oggi. Racconto storie di ragazzi e ragazze coetanei di quelli che incontro. È possibile infatti capire le sensazioni di un coetaneo, al di là del momento storico.

Un approccio empatico dunque, ma non solo. Continua Corradini: “L’empatia non è tutto ma è il primo passo verso qualcosa. La storia non si fa solo con i sentimenti e l’empatia, si fa con la ricerca e con lo studio, ma il primo passo è far nascere interesse verso un mondo che sembra perduto, ma in realtà ha ancora molto da dirci.” Così tanto che non dobbiamo dimenticare che spesso le derive ideologiche che portano a esaltare valori nazionalisti e razzisti nascono nelle periferie, nelle difficoltà, nella carenza di fiducia nelle istituzioni e nell’azione politica. E in questo momento storico siamo particolarmente vulnerabili dal punto di vista ideologico, per molte ragioni. 

Proprio per questo le nuove generazioni vanno coinvolte nella costruzione della memoria collettiva. Anzitutto devono sapere di essere attori e non spettatori. Partecipare alla memoria richiede infatti dei soggetti attivi, non semplicemente dei contenitori di nozioni cristallizzate nel tempo. La memoria è un’azione critica e partecipativa. Basti pensare a come negli anni sia cambiato il linguaggio per raccontare la Shoah stessa, termine di gran lunga preferito a quello inizialmente usato, Olocausto. Il termine Shoah veicola, nel lessico biblico, diversi significati legati all’idea di distruzione. La parola Olocausto, invece, traduce un termine biblico legato alla sfera dei sacrifici di animali. Ma il sacrificio biblico è un gesto culturale che nulla a da spartire con quanto avvenuto nei campi di sterminio. 

Grazie ai testimoni diretti, che affidano alla memoria collettiva i  loro ricordi, questa si arricchisce continuamente e mostra quanto appartenga a tutti, così come a tutti appartiene la storia. E quando scrivo tutti, intendo davvero tutti. Come spiega ancora Corradini: “La liberazione dai nazifascisti è avvenuta grazie a persone che sono rimaste unite a combattere un nemico comune. E questa unità è proseguita anche dopo e ha permesso di scrivere una Costituzione che non è nata soltanto da una ideologia ma dal dialogo tra persone profondamente diverse che hanno deciso di costruire una nazione, in cui ancora oggi viviamo”.

Da quante angolazioni possiamo introdurci dentro al magma della memoria, per comprendere come custodirla e tramandarla? Per “meditare ciò che è stato” e far sì che non si ripeta? Infinite, e ogni volta che sembra spegnersi il fuoco di questa necessità, è nostro compito cercare una nuova scintilla per ravvivare quel fuoco, e soprattutto insegnare alle nuove generazioni come si accende e tiene vivo.

“Come potrebbe prendere coscienza di se stessa una qualunque società se non abbracciasse con lo sguardo un insieme di avvenimenti presenti o passati, se non possedesse la facoltà di risalire il corso del tempo, e di tornare senza sosta sulle tracce che ha lasciato di se stessa?”
(Michel Halbwachs, filosofo e sociologo francese)