Sulla parità, 2 notizie, di segno opposto, si incrociano in questa seconda parte del mese di novembre, quella che gravita attorno al 25 che è da anni la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’una ci dice di un retaggio attualissimo, resistente ai millenni: succede ancora nel 2020, nell’anno della pandemia e della rete come spazio senza perimetro, che dentro a un ateneo pubblico un cultore della materia si permetta di sostenere che le donne non possano rivestire certi ruoli. L’altra ci fornisce invece gli strumenti perché la parità divenga pratica quotidiana.
Ma partiamo dalla notizia brutta. Le donne non possono essere giudici. Ne è convinto Donato Mitola, cultore della materia nel corso di studi di Medicina e chirurgia a Bari, perché ritiene che tra i 2 sessi vi sia una differenza di natura. Lo pensa e lo mette nero su bianco, ne fa un dogma e lo inserisce nella presentazione che condivide con un centinaio di studenti. L’emozione condizionerebbe le donne, al punto da impedire loro di concepire giudizi imparziali. La parità bruciata in una slide, potremmo dire. Per il professore, insomma, non possono dirsi passati i tempi in cui Aristotele scriveva che «si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione» (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15-16).
A quelle dichiarazioni è seguita una vera e propria bufera che ha portato prima alla sospensione del responsabile delle frasi inequivocabilmente lesive della parità di genere e poi alle scuse pubbliche del rettore dell’università.
Ciò che deve essere sfuggito a Mitola, nel corso della sua preparazione accademica, è uno sguardo all’art. 3 della Costituzione. Se solo l’avesse letto saprebbe che tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Un ancoraggio solido alle nostre pretese di uguaglianza che peraltro – va detto – senza la perseveranza e la lucidità di Angelina Merlin, deputata socialista e madre costituente, non avremmo neanche avuto.
È chiaro che il nostro non è un Paese per donne, almeno non ancora del tutto.
Ma cosa occorre perché questa situazione cambi? Serve intanto che muti lo sguardo sul mondo. E, con quello, la narrazione di esso. Avvertiamo perciò innanzitutto l’urgenza che le donne tornino a essere nominate e in certi casi che lo siano per la prima volta. È con questa convinzione che registriamo l’altra notizia, quella buona.
Siamo sempre in ambito universitario e Giuliana Giusti è docente di studi linguistici e culturali comparati alla Ca’ Foscari di Venezia. Quello che ha concepito è un corso su Linguaggio, identità di genere e lingua italiana che è già alla sua quinta edizione in questa formula e all’ottavo anno dal progetto pilota. La linguista si interroga su come dare nome alle donne che svolgono funzioni di governo e direzione. C’è da sottolineare intanto che l’iniziativa è completamente gratuita: 5 moduli che copriranno quattro mesi di lavoro, dal 23 novembre al 14 marzo, per 20 ore di formazione, a disposizione di chiunque sia interessato all’argomento.
Alley Oop ha raggiunto Giuliana Giusti al telefono e ha cercato di saperne un po’ di più: “Lo scopo è quello di divulgare competenze scientifiche linguistiche a chi si occupa di comunicazione anche istituzionale, insegnamento, decisioni politiche“. Per testare il coinvolgimento, le chiediamo del riscontro “ È sempre stato molto positivo, le prime edizioni hanno raccolto oltre tremila adesioni, con più di 900 attestati di frequenza emessi”.
Si tratta di fatto di colmare un vuoto: c’è bisogno di strumenti che permettano “scelte linguistiche consapevoli e motivate nel rispetto delle pari opportunità di genere”. Ed è di questo che stiamo parlando, di un’offerta formativa che la docente negli anni ci dice aver messo a disposizione anche di molte istituzioni, proprio con l’intento di formarne il personale: “Il corso è stato consigliato e seguito dal personale PTA interno all’Università, sia da personale di altre istituzioni come l’Università di Pisa e le istituzioni toscane coinvolte nel progetto TRIGGER (2015), l’Università di Ferrara (2016), i Comuni di Quarto d’Altino (2015) e di Chioggia (2018), da insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, da studenti di scuola superiore e di università, raggiungendo uomini e donne di fasce d’età molto diverse, con interessi molto diversi”.
La traccia di tanto lavoro è facile da seguire e si intreccia con esperienze precedenti: “Il sessismo nella lingua risulta essere un’ulteriore forma di violenza. La lingua italiana è sintomatica al proposito, dal punto di vista grammaticale ha solo il maschile e il femminile, non esiste il neutro e ogni volta che si usa il maschile al posto del femminile – avvocato invece di avvocata – si nega una donna”. E richiama esperienze analoghe, quale ad esempio il primo Bilancio di genere elaborato nel 2018 dall’Università de L’Aquila. E proprio con la prof.ssa Anna M. Thornton di quest’ultima università sta lavorando la redazione del Sole 24 Ore per un’integrazione “di genere” al volume “Come si scrive sul Sole 24 Ore”.
D’altra parte, l’uso non sessista della lingua italiana è argomento cardine nel dibattito sulla parità di genere. Dalle Raccomandazioni di Alma Sabatini in avanti proviamo a chiedere alla linguista che cosa sia cambiato. “C’è oggi un’attenzione nuova. Molte donne si fanno chiamare sindaca o ministra, possiamo essere contente di questo”, ci dice Giusti.
C’è poi un’idea di fondo che sta alla base di ogni ragionamento e che va smentita: che l’uso del maschile sia non solo inclusivo ma anche di prestigio. Se è vero che non in Francia, né in Spagna, né in Germania, le donne impegnate in politica trovano la stessa resistenza che si registra in Italia alla declinazione al femminile delle loro cariche pubbliche, il problema della equiparazione tra sessi anche sul piano linguistico rimane centrale. È indicativa la provocazione lanciata dall’Università di Lipsia che ha deciso di esprimere i titoli accademici all’interno dell’ateneo solo e tutti al femminile.
La questione – ci spiega ancora Giuliana Giusti – è ideologica: “La declinazione al femminile è dentro il sistema della lingua latina e delle lingue romanze. Se pensiamo che per Elena Lucrezia Cornaro Piscopia che fu la prima donna laureata al mondo già nel 1678 l’ateneo di Padova declinò al femminile il titolo di Magistra et Doctrix Philosophiae, fino ad allora di esclusivo appannaggio degli uomini, possiamo ben dire che l’operazione è automatica. Quando quell’automatismo nella declinazione manca, le ragioni sono da attribuirsi all’ideologia”.
Altro discorso è la ricerca di un terzo genere, quel neutro che esiste ad esempio nel tedesco ma non nell’italiano: “In quel caso l’operazione si colloca al di fuori dal sistema lingua e richiederebbe un atteggiamento e uno sforzo che non credo al momento possano essere condivisi largamente”. Sposata la causa, il metodo proposto può dunque divergere, ci spiega la linguista.
Ma qual è la conclusione cui dovremmo approdare tutte e tutti? “Ciò che mi preme è che le donne non si sentano criticate sul piano personale. Bisognerebbe far comprendere invece che fornire gli strumenti per guardare in maniera critica al loro uso linguistico può servire a capire di non essere abbastanza consapevoli”.
Nessuna colpevolizzazione, perciò, ma l’invito ad aprirci e a concederci la possibilità di acquisire nuova consapevolezza e nuove competenze.
Iniziative nate per promuovere la parità e contrastare le condotte discriminatorie, vanno diffondendosi, per fortuna nell’intero Paese e all’interno di categorie e ordini professionali. La stessa università Ca’ Foscari ha adottato apposite linee guida per il linguaggio di genere, come già Cecilia Robustelli e l’Accademia della Crusca avevano fatto lavorando a un documento per il linguaggio amministrativo. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo ha stipulato qualche tempo fa un Protocollo d’intesa con gli uffici giudiziari del distretto, “per un utilizzo del genere grammaticale appropriato al proprio interlocutore/interlocutrice, così da introdurre un elemento che “nomini” la differenza di genere e consenta di identificare la presenza delle donne, contrastando la discriminazione”.
Di questo in fondo si tratta, di segnare la presenza. La raccomandazione è dunque che si dica avvocata o ingegnera, o sindaca o ministra, una buona volta, quando ci si rivolge a una donna.