C’era una volta una fata, un bambino, una principessa. No, aspetta, una strega.
«Una strega che porta sempre i guanti […] anche in estate. Perché al posto delle unghie ha lunghi artigli aguzzi e ricurvi come quelli dei gatti, e i guanti le servono per nasconderli» racconta la nonna nel romanzo “Le streghe”, scritto da Roald Dahl, nel 1983.
Un paio di settimane fa, prima del lockdown e delle zone a colori, sono inciampata in alcune immagini che Instagram mi ha offerto su un piatto d’argento. Atterrataci da poco, mi ha subito proposto dei selfie, non selfie qualsiasi, ma di ragazze che scrivevano un hashtag comune: #notawitch. Sembrava qualcosa che avesse a che fare con la festa di Halloween, in quella giornata di nebbia e atmosfera di cappelli a punta, vestiti color viola, pigiami che rappresentavano scheletri, e invece scopro che no, non aveva a che fare con nessun invito, costume o altro.
Potrei poi scriverne – ho pensato – ma perché succede ancora oggi? Una semplice sequenza di fotogrammi: si trattava del nuovo adattamento cinematografico di “The witches”, dell’omonimo romanzo, trasmesso, a causa della pandemia, in via esclusiva sui canali streaming e on demand in cui Anne Hathaway interpreta la Strega Suprema.
“Le streghe sono tutte donne. Non voglio parlar male delle donne. In genere sono adorabili. […] Ma tutte le streghe sono donne: è un fatto. E comunque una vera strega rimane, per i bambini, la più pericolosa delle creature. Quel che la rende doppiamente temibile è il suo aspetto del tutto inoffensivo” continuava l’autore.
Con le parole ci descriviamo e gli altri ci descrivono e, con queste, si può fare e dire tanto, lo sappiamo; per esempio Dahl nella prima pagina mette subito in guardia bambine e bambini raccontando le “vere streghe” (e oggi, con uno sguardo più adulto, potremmo trovare forse anche temi e stereotipi da approfondire). Ma anche con le immagini dobbiamo fare i conti tutti i giorni. E qui non dobbiamo per forza trovare il tempo di leggere o di pensare e, se aggiunte e condite da altro, possono essere motivo di troppo o di mancanza.
Dipende dai punti di vista. Dipende da come guardi. Dipende dalla tua storia. Metti che assomigli proprio alla Strega Suprema del trailer che scorre nelle stories, cosa diresti e come reagiresti? A volte, è vero, facciamo di più e di più, dimenticandosi di far riferimento al libro illustrato da Quentin Blake, con il suo tratto nero e dedicato a un pubblico di bambini. Proviamolo a modificare e a usare la diversità, in questo caso la disabilità, e in particolare una malformazione agli arti che si chiama ectrodattilia che comporta uno sviluppo incompleto di una o più dita, per rappresentare la ‘cattiva’, “per dare – dicono – una descrizione più reale per rappresentare gli artigli, non cinque come illustrati, ma solo tre, sono più visibili“; mettiamoci del nostro, un po’ di fantasia, per poter così assecondare gli stereotipi secondo cui le varie disabilità siano o anormali o speciali.
Non sono una strega, in maiuscolo. Un pennarello, un’attività, una foto. Scritto sulla mano o sulle dita che hai. Decine e decine di bambini, ragazzi e giovani donne in primo piano. Decine di scatti per parlare. Da questo tanti post, un grande movimento, che porta avanti l’hashtag #notawitch, ora con più di 3000 condivisioni partito da The Lucky Fin Project, una community online e un’associazione no profit dedita al supporto di famiglie e bambini che vivono con una disabilità. Storie e frammenti di realtà quotidiane. Sono sensibilità che vengono colpite, “sguardi che esagerano” – qualcuno ha detto – “ma è solo portare all’esasperazione” – altri ancora – “allora non si può fare proprio nulla“.
Dipende, dipende da come viene raccontato. Ed è una linea sottile, quella che “bene, parliamo di diversità” e quella “ora, come ne vogliamo parlare”. Aprire un dialogo per non ripetere gli stessi errori tra le opportunità che perdiamo (a partire appunto dai media) o investiamo male nel raccontare tutta la diversità, nel suo rispetto, anche e soprattutto ai più piccoli, perché è necessario insegnare loro a guardare, a come guardare, e a distinguere l’eccesso dell’ispirazione, con l’esempio di postare foto di bimbi ‘speciali’ sui social e al paragone non studiato a sufficienza nel film. Siamo sulla strada giusta?
È importante trasmettere messaggi, esperienze e punti di vista. Farsi sentire: attraverso anche un hashtag che a un prima superficiale impressione aveva a che fare con una promozione e una festa. Siamo persone, prima di tutto il resto.
Cosa potrei pensare dopo aver visto quel film che rappresenta una parte, la disabilità, come una cattiva strega, un mostro in fin dei conti; e – mi viene in mente – se incontrassi una bimba con quella disabilità a scuola, al parco, in metro: mi allontano, chiedo, mi imbarazzo, associo?
C’era una volta io con la mia storia, e c’eri anche tu. Eccola la diversità.