Poche donne nei concerti, nei festival e sulle piattaforme digitali: l’ambiente musicale è ancora una “cosa per uomini” e i numeri dimostrano che nella produzione meno del 5% degli ingegneri del suono sono donne. Ed è altrettanto difficile pensare a punti di riferimento femminili nell’ambiente. Marta Salogni si è sentita da sola prima di diventare una degli ingegneri del suono più influenti nel panorama internazionale.
Dopo la scuola superiore si trasferisce a Londra: lavora sodo alla sua formazione e fa anche di più. Perché è riuscita a imporsi nell’ambiente della produzione per le sue competenze, diventando quell’esempio che lei stessa cercava all’inizio della sua carriera. Vince il Music Producer Guild Award 2018 come migliori ingegnere del suono emergente, un risultato arrivato mesi dopo il mixaggio realizzato per l’album Utopia di Björk.
In quello stesso anno lavora a “8” dei Subsonica, che funziona per la sua sensibilità analogica risolta in una potente avanguardia digitale. Ha poi collaborato, tra gli altri, con The xx, M.I.A., Tracey Thorn, Frank Ocean, Bloc Party, Goldfrapp, Factory Floor, White Lies, Phil Selvay (Radiohead) e Liars. Da un mese è fuori il suo ultimo lavoro per Romy degli xx, che ha presentato il suo primo singolo da solista Lifetime. Parliamo già di una hit che tiene alte le aspettative per l’uscita dell’album.
Qual è stato il tuo approccio a questa professione, nonostante i pochi esempi a disposizione di donne che potessero dire di avercela fatta?
Sono stata sempre affascinata dalla relazione tra il suono e la sua manipolazione attraverso mezzi meccanici. Mi piace la stretta connessione della musica con il mondo scientifico e quello spirituale. Le tecniche di manipolazione del suono, l’aggiunta di riverberi, la scelta di un tono rispetto a un altro, sono strumenti di traduzione del sentimento che l’artista vuole comunicare. E questo per me è bellezza e profondità unica. Essere responsabile di questo processo di traduzione è una fonte di continua crescita e ispirazione personale. È come essere parte della performance dell’artista, toccando una dimensione più metafisica.
Questa visione della professione mi dà la forza di andare avanti, perché lo sento davvero come un bisogno espressivo ed esistenziale. Quando ho cominciato, da ragazzina, si sentiva parlare solo di Leslie Anne Jone come donna in questo lavoro. Avevo visto la sua fotografia sulla rivista di registrazione Tape Op: stava seduta davanti al mixer, concentrata, guardava davanti a sé con una sicurezza che mi ha colpito. Mi dissi che volevo diventare come lei un giorno. Quella fotografia mi è cara ancora oggi. Con il passare degli anni ho scoperto Daphne Oram e Delia Derbyshire del BBC Radiophonic Workshop in cui mi sono rispecchiata per la loro visione e l’approccio sperimentale all’ingegneria. Lentamente ho iniziato a sentirmi meno sola. Anche se la solitudine è sempre stata una presenza costante nella mia professione e che, in fondo, trovo confortante. Perché le ore passate a pensare a metodi di registrazione o a comporre un pezzo, sono momenti passati in conversazione con me stessa. Ore in cui sperimento nuove tecniche, in libertà, senza pressioni.
Quanto le aspettative per il lavoro di una donna nello studio di mixaggio sono alte ancora oggi? Ti è mai capitato di fare i conti con la discriminazione di chi lo considera ancora “un lavoro per uomini”?
Noi donne, insieme agli altri non-binary genders che non siano uomini eterosessuali di classe e età medio alta, e di carnagione bianca, siamo da sempre state discriminate nel mondo dell’ingegneria musicale. Con il passare degli anni, e grazie alle lotte per la parità dei diritti nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana, le condizioni sono migliorate, ma non ancora in maniera considerevole. Ancora oggi ci sono esempi di discriminazione, a volte nascosti, istituzionalizzati. Altre invece lampanti perché la classe dominante (white, middle class, middle aged) teme di perdere il proprio potere e reagisce con ignoranza e cattiveria.
Nella mia carriera, soprattutto all’inizio, sono stata discriminata. Mi rivolgevano a volte frasi sessiste durante le sessioni. E il mio ruolo veniva messo in discussione per il semplice fatto di essere donna. Sapevo però che dipendevano da ignoranza e paura, e ho sempre pensato che, se la mia sola presenza riusciva a confondere le convinzioni a cui erano abituate quelle persone, allora per me ne era motivo di vanto. Sono sempre stata orgogliosa di essere donna e di fare quello che faccio. E se una donna ingegnere del suono è qualcosa di rivoluzionario allora ben venga: mi piacciono le rivoluzioni. Il problema è che chi discrimina spesso ricopre ruoli decisionali ed è proprio lì che bisogna intervenire. Dobbiamo smontare il patriarcato. Le discriminazioni non mi hanno mai fermato. I perdenti sono loro.
Ci sono progetti artistici e culturali che consideri interessanti proprio nel superare il gap di genere nel tuo settore? Ne supporti qualcuno?
Sì, molti. Penso a Women Produce Music, con cui ho collaborato per la realizzazione di un disco insieme a Suzanne Ciani, Omnii Collective, potendo poi tenere un workshop all’università Goldsmith a Londra. Poi ci sono Saffron Records a Bristol, Women Audio Mission negli Usa. E ancora Rebalance, Girls Rock London, Female Pressure, She Said So. Queste sono organizzazioni e charities.
Per quanto riguarda i progetti artistici a cui partecipo, invece, per me è necessario che siano rispettate l’inclusività e la rappresentanza. Voglio che l’ambiente in cui lavoro rispecchi la mia idea dell’industria musicale. Cerco di rimuovere le barriere che ostacolano le pari opportunità, promuovendo quindi le occasioni che possano aiutare le minoranze.
Cosa ritieni sia indispensabile per eseguire produzione e mixaggio ottimi?
L’empatia è fondamentale per immedesimarsi nella visione dell’artista. Servono poi profondissima dedizione e padronanza delle tecniche. Non ho mai avuto un piano alternativo nella mia vita, volevo fare questo lavoro e ho avuto fiducia nelle mie capacità. A piccoli passi. E poi è importante essere ingenui, conservare sempre la propria spontaneità.
Hai lavorato al fianco di artisti internazionali come Bjork e Frank Ocean. Qual è stato l’aspetto più complesso nella realizzazione della loro visione del progetto musicale?
Gli artisti che sono riconosciuti per la propria fama hanno spesso una fortissima identità, musicale, artistica, personale. Capirne l’essenza e riuscire a trasmetterla è l’aspetto più complesso e più eccitante. Bisogna quindi avere rispetto per la loro legacy e, al tempo stesso, per la voglia di voler creare qualcosa di nuovo e unico.
La scuola xx è una certezza pazzesca e lo conferma “Lifetime” di Romy uscita qualche giorno fa. Quali sono state le atmosfere che più hai apprezzato della collaborazione a questa hit?
Romy è una persona fantastica sotto tanti punti di vista. La sua visione e il progetto di un singolo – e dell’album a cui stiamo lavorando – che si ispirasse ai club classics della dance music, alla club culture, mescolando euforia e drammaticità nella struttura dei pezzi, nonché elementi nostalgici e senza tempo della composizione, mi hanno dato fin da subito una forza pura e contagiosa. Con questo album solista Romy vuole dare voce alle sue esperienze più personali, esprimendo la sua intimità. Non ci sono molte canzoni d’amore cantate da donne, per donne, nell’ambito della club music. Ma la club culture ha sempre giocato un ruolo molto importante nella scena gay. Ne abbiamo parlato molto insieme. Un disco club completamente dedicato all’amore tra lo stesso sesso è semplicemente rivoluzionario (come ho detto precedentemente, mi piacciono le rivoluzioni!), perché la sua sola esistenza conferma la necessità di un progetto simile oggi. Ci siamo rese conto che si ha bisogno di canzoni che parlino delle coppie che non si sentono rappresentate dai testi d’amore convenzionali lui/lei. E le tracce di Romy raccontano proprio la sua storia personale, onesta, genuina.
Sei tra i componenti del gruppo Melos Kalpa. Cosa dobbiamo aspettarci da questo ensemble che si muove tra l’improvvisazione e il minimalismo, così come si legge dalla sua descrizione sui social?
Melos Kalpa è un progetto che ho iniziato con il mio partner, Tom Relleen, poco più di un anno e mezzo fa. È nato dalla nostra passione per composers come Steve Reich e Terry Riley, e per l’uso ipnotico di motivi musicali che nelle loro ripetizioni generano un movimento sia minimale che immensamente forte, dato dalla tensione tra gli strumenti. Ci siamo rivolti a cari amici musicisti (Agathe, David, Jem) che sapevamo avrebbero condiviso questa visione. Quindi abbiamo adottato l’uso del graphic score, in cui ognuno di noi ha un “ruolo” che varia da protagonista, motore, nube, o interruzione.
L’unica costrizione è la lunghezza delle sezioni. Così ci siamo ritrovati in studio da me, e registrando queste improvvisazioni abbiamo realizzato un disco che ora sto mixando. Io suono macchine a nastro, delays e loops, dando ai ritmi quella qualità ipnotica e imprevedibile che solo macchine così volubili possono dare. Agathe è violinista, Jem suona batteria e marimba, David la chitarra. Tom suonava il basso, sintetizzatore Buchla e vibrafono. Dopo una dura lotta contro il cancro è mancato lo scorso agosto. Prima di andarsene mi ha detto di quanto fosse orgoglioso di quello che avevamo costruito e registrato con il nostro gruppo, e che ci teneva che Melos Kalpa andasse avanti. Abbiamo fatto le prime due sessioni senza di lui poche settimane fa, e la sua mancanza è stata enorme. Ma lo era pure la consapevolezza del suo desiderio, che ora è anche il nostro. Andremo avanti a suonare, faremo uscire questo disco.
Sei in contatto con produttrici e ingegneri del suono italiane? A che punto siamo nel nostro Paese, possiamo ritenerci competitivi in tal senso o c’è ancora da lavorare?
Sì, conosco Marta Maria di Nozzi che lavora ad Abbey Road e Chiara Ferracuti di Church Studios. E ho sentito parlare anche di Marta Venturini. Non vivo in Italia da 10 anni, non me la sento di fare paragoni, ma credo che ovunque ci sia ancora da lavorare in tal senso. Basta guardare le statistiche: il dietro le quinte dell’industria musicale è composta da meno del 5% di donne.
I tuoi progetti per il futuro?
Sto avviando una charity che si dedicherà alla promozione di lezioni di musica gratuite per bambin* e ragazz* di famiglie che altrimenti non potrebbero permetterselo. Inizierò con lezioni di singoli strumenti, per poi unirli in un’orchestra che lavorerà sull’improvvisazione, come il mio gruppo Melos Kalpa. L’idea mi è venuta durante una delle ultime chiacchierate con Tom e ora più che mai sento che sia importante realizzarla. Sto raccogliendo fondi e spero di iniziare nel 2021 con le prime sessioni a Londra. Ma sogno di farlo anche in Italia.