Viaggio nella lotta alla violenza contro le donne. Siamo in un grosso paese della Sicilia sudorientale, Avola, famosa per la sua mandorla, il vino, le acque cristalline. Non lontano vive S., una ragazza croata arrivata in Italia come vittima di tratta, più volte ferita dalla vicende della sua esistenza, più volte, e in posti diversi e lontani tra loro, vittima di violenza. Lei, grandi occhi scuri che raccontano più delle parole, si definisce “ribelle”, forse perché non ha mai accettato di subire violenza senza protestare e lottare, scappare o tentare di farlo. Nonostante la violenza l’abbia respirata già da piccolissima, col padre che maltratta la madre e arriva a tentare di ucciderla davanti ai figli. Un padre da cui la bambina viene presto allontanata.
Le violenze e la casa famiglia
S. non si trova bene neanche nella casa famiglia in Croazia dove vive e dove subisce altre violenze, e viene convinta da un’altra ragazza a seguirla. La sua situazione non migliora, viene ospitata in un’abitazione dove gira molta droga. S. cerca di chiedere aiuto, di scappare ma non ci riesce. Alla fine, solo quattordicenne, viene convinta da un giovane uomo a seguirlo in Italia con la promessa di un lavoro da babysitter. In Italia ci arriverà nel cofano dell’automobile, portata in un hotel in Veneto, dove alloggiano altre ragazze obbligate a prostituirsi per strada. “Io ero ribelle, mi drogavano, abusavano di me, ma io cercavo sempre di scappare”. Dopo varie peripezie S. riesce davvero a scappare e raggiungere un bar, dove sviene stremata dalla fame. Da lì arriva alle autorità italiane, all’ospedale e poi alla polizia, che dopo tempo riesce a convincerla a denunciare. Lei denuncia, dà una mano alle indagini che riguardano la criminalità organizzata del suo Paese, ma ha molta paura. Viene portata in un’altra città del Nord Italia in una casa protetta. “Ero chiusa in quella casa, non potevo uscire, non lo sopportavo”.
Relazioni violente e la scelta più dolorosa
Nonostante tutte le accortezze, i criminali riescono a sapere dove si trova, la minacciano. “Avevo sempre più paura, un giorno mi sono tagliata le vene, mi ha salvato una ragazza che viveva con me nella casa, che mi voleva bene”. Di lì a poco fugge di nuovo con un’amica che la porta in Sicilia. “Siamo arrivate in treno, nascoste nel bagno, per non farci trovare da nessuno”. S. è ancora minorenne. Finisce in una comunità, ma scappa anche da lì, al seguito di un fidanzato. Anche lui ogni tanto “alzava le mani”. Dalla relazione nasce una bambina, ma i rapporti tra i due peggiorano, si arriva alla violenza, e alla fine la figlia viene tolta a S. Forse perché avvezza alla lingua italiana scritta, la ragazza firma un foglio dove rinuncia al diritto alla genitorialità. Nel frattempo cominciano i primi contatti con il centro anti violenza “Doride” del Comune di Avola dove la S. viene accolta e aiutata. Inizia una battaglia per riavere la figlia, e la giovane in questo difficile percorso viene seguita dalle volontarie del centro Doride presieduto dall’avvocata Tea Romano. Nel frattempo la bambina finisce in affido a una famiglia perbene, che la accoglie e ricolma d’affetto. La piccola che in precedenza aveva difficoltà a scuola, risulta tra i primi della classe. “Mi sono resa conto che mia figlia stava bene in quella famiglia, e le avrei fatto del male costringendola a tornare da me”. Per questo S. rinuncia alla figlia e alla battaglia legale per riaverla.
Il cerchio si chiude
Intanto frequenta un corso di formazione al centro “Doride” proprio per diventare operatrice nei centri anti violenza. E il cerchio di S., ragazza “ribelle” che non ha mai accettato come normale la violenza, si chiude. Ora ha un’altra relazione, si adatta a lavorare in vari contesti e proseguirà con il corso di formazione. Quando parla delle ragazze costrette a lavorare per strada vorrebbe aiutarle, capisce la loro situazione e vorrebbe dare loro una mano. Un caso difficile, complesso, quello di S., ma alla fine un caso che dimostra come a volte il cerchio virtuoso di istituzioni, centri anti violenza, percorsi di formazione e istruzione possa mettersi in moto e funzionare.
Storie come quelle di S., cioè di ragazze determinate che si oppongono fermamente alla violenza, non sono frequenti al centro avolese. “Abbiamo avuto dei casi, ad esempio, di ragazze con figli piccoli che dopo aver fatto ricorso alle nostre strutture non hanno voluto proseguire nel percorso di denuncia. Penso – dice Tea Romano – che qui ci sono molte donne che non denunciano in nome tante volte di un insano senso della famiglia. In genere da noi arrivano solo i casi più difficili, mentre quelli meno gravi, come ad esempio quelli di violenza psicologica, restano sommersi. Manca cioè una consapevolezza e conoscenza del fenomeno della violenza che affonda le radici nella società patriarcarle. Inoltre c’è una scarsa fiducia nelle istituzioni”. Eppure, le fa eco la collega Gabriella Tiralongo, socia fondatrice di Doride, “siamo un centro grande che si occupa anche di altri territori vicini dove non ci sono centri anti violenza”.
Il nodo dei finanziamenti ai centri anti violenza
In generale nei centri anti violenza siciliani si sente, rispetto ad altre regioni più virtuose, il problema dei finanziamenti insufficienti alla sopravvivenza dei centri. La Sicilia, racconta Anna Agosta, presidente del centro catanese Thamaia che fa parte della rete di D.i.Re e che nella Regione ha cinque associate, è certamente lontana da modelli virtuosi come quelli dell’Emilia Romagna dove “ci sono finanziamenti stabili da parte dei comuni”. Nella realtà catanese le operatrici, tutte volontarie, si occupano di centinaia di casi, ricevendo 250-300 chiamate l’anno. L’attività di Thamaia non si è fermata neanche con il lockdown, continuando a dare ascolto alle donne via Skype e andando, una alla volta, in sede per rispondere alle chiamate. “Il 60% dei contatti inizia con noi un percorso. Arrivano le situazioni più svariate, dalle emergenze con donne in pericolo di vita alle situazioni di chi inizia un percorso, pur convivendo con il maltrattante, che si conclude con la denuncia. Il problema per gestire tutte queste situazioni e dare stabilità al centro è sempre quello dei fondi: “da noi – racconta Agosta – i fondi arrivano, riceviamo dalla conferenza Stato-Regioni 20mila euro l’anno, troppo poco. Il problema è sempre la distribuzione di fondi a pioggia anche a centri che non hanno le caratteristiche necessarie per occuparsi della violenza”.
Per combattere la violenza servono operatori formati e preparati
La storia di S. insegna probabilmente che la formazione resta uno dei pilastri, individuato anche dalla Convenzione di Istanbul, per affrontare in maniera concreta la violenza contro le donne. La formazione degli operatori che vengono a contatto con le vittime, assistenti sociali, membri dei centri anti violenza, personale sanitario, delle forze di polizia e della giustizia, è fondamentale per affrontare questa piaga in maniera strutturale e impedire la cosiddetta rivittimizzazione delle donne. E questo sarà uno dei punti cruciali del progetto “Never again”, vincitore di un bando europeo, che Alley Oop-Il Sole 24 Ore porterà avanti assieme a D.i.Re, Prodos Consulting, Università Vanvitelli di Napoli, Masc e Maschile Plurale e che entrerà nel vivo a novembre. Tra i partner del progetto si contano anche numerosi organismi istituzionali come presidenza del Consiglio dei Ministri – dipartimento delle Pari opportunità, la Scuola Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense. Il progetto dovrebbe partire a novembre e ha una durata di due anni.