Cosa c’entra un gruppo di suore con l’empowerment femminile? Se di mezzo c’è Netflix, non si può dare niente per scontato. In questo caso abbiamo a che fare con suore particolari, guerriere, una sorellanza dedita alla difesa di alcune reliquie che garantiscono l’equilibrio planetario fra i regni del bene e del male.
Warrior Nun è una serie che cavalca diversi generi, dal fantasy alla fantascienza all’action movie al teen drama, con qualche pizzico di horror, lanciata lo scorso luglio da Netflix. Dieci puntate (per la prima stagione) tratte da un manga, ma che del manga e dei suoi stilemi più classici ha conservato ben poco. Sarà che dei sette sceneggiatori ben quattro sono donne, sarà che il forte contrasto tra l’idea della suora e il badass ninja dà adito a risvolti narrativi spiazzanti tutti da esplorare, si può dire che dalla scrittura di questa serie emerge finalmente uno sguardo diverso, nuovo.
Possiamo chiamare in causa il female gaze auspicato nel 2016 dalla sceneggiatrice Jill Soloway? In pratica Soloway affermava che per potersi finalmente affrancare dallo sguardo maschile predominante nel cinema, occorrerebbe utilizzare la cinepresa in modo totalmente inedito: sottrarla al puro sguardo, puntandola anche sul mondo interiore dei personaggi, per poter superare l’oggettivizzazione del corpo, sia da parte dei personaggi interni alla storia, sia da parte dello spettatore.
Warrior Nun fa tutto questo? Alley Oop ha incontrato Sylvia De Fanti, attrice che interpreta uno dei ruoli della serie, Madre Superion. All’interno di un cast totalmente internazionale, lei stessa con un bagaglio di esperienze e vita cosmopolita, Sylvia De Fanti ha inoltre una laurea in antropologia culturale con tesi sulla Teoria del Caos, è attivista femminista e ha partecipato a esperienze militanti come quella del Teatro Valle Occupato e del Collettivo Angelo Mai. Parlare con lei di questa serie, non può che essere un momento di confronto sui temi descritti sopra, dall’empowerment femminile a una nuova narrazione cinematografica più vicina allo sguardo femminista.
In che modo le serie tv possono contribuire a una ridefinizione del femminile?
“Quando una scrittura comprende uno sguardo plurale, c’è una lettura della realtà trasversale, complessa e non semplicistica. I personaggi non sono più gli assoluti contrapposti che siamo abituati a vedere, ma acquistano profondità. Nel caso dei personaggi femminili, le donne non sono relegate a ruoli: non c’è solo la madre, la moglie, la sorella, ma di loro vediamo delle caratteristiche peculiari, che esprimono ripensamenti, debolezze, fragilità. E in questo caso la fragilità diventa elemento costitutivo e non elemento che va a rompere un equilibrio.”
Hai percepito nella scrittura di Warrior Nun questa pluralità di sguardi?
“Per cominciare abbiamo avuto una sceneggiatrice fissa sul set. Mi sono spesso confrontata con lei, per esempio su come il movimento #metoo abbia portato un’apertura notevole nella scrittura delle serie tv. Per dire, il manga da cui è tratta la serie ha la classica estetica da manga: le suore sono sexy, possiedono attributi fisici iperfemminilizzati, indossano abiti succinti. Nella serie l’aspetto estetico è stato completamente rivisto, non solo in un’ottica disoggettivante. È stato fatto di più: le personagge, in totale empowerment, vestono delle divise che si personalizzano in base alle specifiche competenze di ognuna. Non un esercito uniformato, insomma, ma un gruppo di individui in cui a ogni skill individuale corrisponde un costume. Diventa ancora più evidente che la forza deriva dalla sorellanza, dalla squadra e dalla solidarietà, in un contesto in cui il singolo è libero di esprimersi.”
Il personaggio di Madre Superion che hai interpretato, a tratti sembra essere in bilico tra questa sorellanza e la devozione al potere, a quel tipo di potere perverso e corrotto che nella serie è detenuto, forse non a caso, da un uomo di mezza età. Cavalca l’ambiguità per gran parte della serie.
“Madre Superion è una donna forte e di potere, ma le sue non sono caratteristiche assolute. In lei queste caratteristiche che potremmo definire “maschili” sono declinate nelle loro sfumature, nelle loro complessità. Non c’è in generale nella serie un aspetto oppositivo, forte contro fragile, esistono costruzioni più complesse. La stessa protagonista non è un’eroina, sembra preferire costantemente la banalità del quotidiano alla grandezza della responsabilità. In Madre Superion c’è una ferita evidente, sul viso addirittura, che denota un vissuto tragico, contrapposta al contenimento estremo dell’emotività richiesto dal suo ruolo. È una madre protettrice, possiede una tensione fortissima nel calibrare la vulnerabilità. C’è in lei una forma di incoerenza. Eppure sa di non essere forte solo in quanto Madre, la sua forza si nutre nell’aderenza a un sistema basato sulla sorellanza.”
Un’ultima domanda sul teatro, per te che sei un’attivista anche in quest’ambito: pensi che l’innovazione che il Covid ha richiesto a quasi ogni aspetto dell’attività umana, debba toccare anche il teatro? Immagini degli scenari, hai visto delle proposte interessanti in questo senso?
“Il teatro da molti anni in Italia vive una crisi sistemica, che coinvolge non solo lo spettacolo dal vivo, ma la cultura in generale. La pandemia non ha fatto che impattare un sistema già debole per struttura economica, formazione del pubblico, e quant’altro. Il problema fondamentale è che la cultura non è percepita come bene comune, ma come bene secondario o accessorio. La socialità del teatro implica che ci sia un condivisione e una collettività. Se questa viene meno non si può parlare di teatro. E poi meno pubblico porta a un minor indotto economico, e questa è una delle questioni che vanno ripensate. È probabile che la sofferenza principale sarà nell’indotto economico dei teatri grandi, i più finanziati, ma cosa dire di quelle realtà che vivono di sbigliettamento? Rivedere il sistema di finanziamento sarà una delle priorità. Ma non solo. Il recentissimo Festival di Santarcangelo, di tradizione decennale, ha rimodulato in diverse tappe il programma, invece che cancellarsi. Si possono trovare modalità integrate nello spettacolo stesso, pensando a forme ibride tra interazione dal vivo e da remoto. Mantenere diverse modalità sarà probabilmente una necessità assoluta. Da artista, personalmente, so che se metto piede sul palco non sto solo performando qualcosa, ma sto interagendo col mio presente. Non posso andare in scena senza pormi domande. In alcuni spettacoli queste domande sul presente sono state integrate nel lavoro. Dobbiamo riformulare e inventare, ma non è impossibile.”
D’altra parte il teatro ha visto la sua formalizzazione nella civiltà greca, come luogo in cui il disordine degli impulsi umani veniva in qualche modo addomesticato nel rito di condivisione collettiva. In questo senso, tutte le arti performative hanno ancora molto da dare.