Io non urlo. Sono una madre che non urla con i propri figli, un’amministratrice delegata che non urla con i propri collaboratori. Conosco madri e amministratori delegati che urlano. Si urla per far uscire una pressione che si sente dentro, oppure si urla perché lo si ritiene efficace. L’urlo può essere una tecnica oppure un bisogno emotivo.
Che cosa succede, però, all’urlo che non esce? Me lo chiedo perché questi mesi di vita nuova e diversa sono stati un accumulo di sassolini che sembrava sempre dovesse finire da un momento all’altro e che invece non è ancora finito. Di fronte alle difficoltà, chi ha delle responsabilità – e quindi del potere – si mette in “assetto di supporto”, e gli altri sanno di poter contare su di lui o lei.
Non riguarda solo le madri e gli amministratori delegati: senza dubbio non c’è persona adulta che in questi mesi non sia stata responsabile di qualcosa o di qualcuno.
E la respons-abilità, la capacità di rispondere, è diventata come il bicchiere d’acqua della storiella: tenerlo in mano per un po’ e facile, ma dopo alcune ore arriva a pesare come un macigno. Anche la responsabilità, ogni tanto, va appoggiata da qualche parte. Ma, finché siamo in emergenza, sentiamo di non poterlo fare. Ce la teniamo addosso sempre: anche quando non ne siamo consapevoli, anche quando dormiamo.
E’ nella natura umana restare allerta finché non passa la sensazione di pericolo. Allerta per sé e per tutti quelli che su di noi contano.
Tre mesi dopo l’inizio di questo esercizio prolungato e intenso di responsabilità, attenzione e cura, possiamo forse provare a chiudere gli occhi e lasciare che il mondo se la cavi da sé, almeno per qualche ora – o per qualche minuto?
Prima di decidere di farlo, è utile sapere che nella pausa potremmo ritrovarci da soli con noi stessi, vedendo finalmente quanto siamo stanchi. Le elenca bene un recente articolo dell’Harvard Business Review, le tre fatiche che abbiamo addosso:
1) la fatica emotiva e cognitiva che deriva dalla convivenza prolungata con l’incertezza, con situazioni completamente nuove, con preoccupazioni sul presente e sul futuro;
2) la fatica fisica che deriva dallo sforzo emotivo e cognitivo, non di rado accentuata dalla difficoltà a staccare o a dormire, dalla presenza di un costante rumore di fondo;
3) la cosiddetta “compassion fatigue”: quella che deriva dall’impegno ad ascoltare e a capire gli altri, a fargli sentire che ci sei, a prendertene cura; soprattutto nelle piccole cose e nei gesti che si notano appena, ma che sono segnali di una presenza costante. L’empatia, così efficace nel curare i malesseri altrui, ha un costo energetico in chi la esercita, soprattutto quando il carico cresce all’improvviso, come accade quando si sperimentano allo stesso tempo la convivenza con la propria famiglia 24 ore al giorno e la necessità di supplire alla distanza fisica dai propri colleghi e clienti.
Non c’è modo di diminuire questo impegno né di sapere per quanto durerà con questa intensità, ma conoscerlo è una buona ragione per farci passare la “sindrome da 10” – come l’ha definita di recente la relatrice di una conferenza – e quindi abbassare le nostre aspettative su di noi e sugli altri a un bel 6 pieno e, perché no, prenderci una pausa in cui guardare a noi stessi con tenerezza e orgoglio per le capacità che stiamo mettendo in gioco in queste circostanze eccezionali.