«Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono».
Questo, di Cecità è forse il passaggio più significativo, l’epitaffio che rimane scolpito nella memoria del lettore. Il romanzo esce per la prima volta in Portogallo nel 1995, con il titolo di Ensaio sobre a Cegueira – Saggio sulla cecità. In Italia è Einaudi a darlo alle stampe. Si tratta dell’opera forse più nota di José Saramago. Il Premio Nobel è autore tra l’altro del Vangelo secondo Gesù Cristo, ulteriore mirabile esempio della più grande letteratura contemporanea.
E se – come accade al migliore dei classici – Cecità riesce a scavalcare i tempi, in giorni di pandemia non si può non rimanere storditi per l’estrema attualità di queste pagine che tornano prepotentemente in alto anche nella classifica delle vendite.
Il racconto netto e tagliente di un’improvvisa cecità bianca che si diffonde come a macchia d’olio e colpisce, una persona dopo l’altra, un’intera popolazione. Siamo in un Paese qualunque, in un tempo qualunque. La suggestione si presta a un parallelo inevitabile con gli eventi che hanno sconvolto questa prima parte del 2020. Scorrono le innumerevoli similitudini, pagina dopo pagina, e il pensiero non può che andare ai nostri giorni, ancora segnati dal Covid-19. Paura e angoscia sono insomma eterne e il tempo di peste può giungere in un momento qualsiasi della storia.
Le domande dei protagonisti sono le domande di ognuno di noi, davanti al contagio che ha fatto in Italia finora oltre ventisettemila morti, decessi che nel mondo superano i duecentomila. «In un’epidemia non ci sono colpevoli, ci sono solo vittime», parole di ieri buone anche per l’oggi. Le cause non le conosciamo. Al momento l’urgenza è comprendere le dinamiche della diffusione e cercare di farvi fronte, con il distanziamento sociale intanto. Serve tempo per i vaccini e le sperimentazioni, c’è tuttavia la ricerca che senza sosta lavora per un antidoto, una cura. Nel mondo di Cecità invece la tragedia collettiva sembra senza ritorno. È dramma completo, buio pesto seppure bianco. E anche la ricerca si rivelerà quasi subito una speranza mal riposta. Accecati i medici, i protagonisti paiono definitivamente sconfitti, smettono di nutrire qualsiasi aspettativa.
La narrazione è per l’autore occasione per disegnare l’uomo, a tutto tondo. Senza pietà, né cedimento, con uno sguardo realistico e insieme critico. Ma c’è chi ancora vede bene, in quel mondo di occhi spenti. Ed è una donna. Sarà lei guida e capopopolo di un gruppetto di persone che, a un certo punto, diventeranno famiglia.
L’abbrutimento che segue alla paura e poi all’orrore è descritto in maniera esemplare. Il piano onirico si sostituisce a tratti a quello della realtà dei sensi; diventano gli odori putridi – della vita e della morte – le sole coordinate cui quel mondo affetto dal mal bianco può infine affidarsi.
C’è in queste pagine moltissima umanità. C’è l’impatto con l’ignoto, il cigno nero che tutto travolge e getta nel caos. C’è il rapporto con l’autorità e c’è l’emergenza, declinata in termini di sicurezza nazionale. C’è la risposta militare, primissima scelta, eletta – come purtroppo continua ad accadere in tanta parte del globo – a sola possibilità di dominare l’irrazionale. La deriva autoritaria si materializza a colori dai toni ben definiti, in un mondo senza vista dove i sensi che restano non possono che affinarsi. Uomini e donne obbligati – come già al tempo del colera o della febbre gialla – a una quarantena che fa presto ad assumere i contorni della prigionia. Esseri umani di ogni età, rinchiusi dentro a un manicomio ormai in disuso, riattato al solo scopo di separare i sani dai contagiati. Immagini di grande forza evocativa che alla memoria riportano i lager nazisti, ma anche quelli libici di questo secolo. Grandi camere e infiniti corridoi come serpenti compongono uno spazio vuoto di tutto, dove la vita è ridotta alle sue stesse esalazioni.
Impressionante la descrizione dell’internamento. La soppressione di ogni libertà di movimento in quelle pagine si accompagna alla repressione e alla cancellazione di ogni diritto, fino al soffocamento completo della dignità umana. Una ricostruzione da cui si dipanano divagazioni gravide di riflessioni attualissime.
«Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia di cecità, provvisoriamente designata come mal bianco, e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio (…) La decisione di riunire in uno stesso luogo tutte le persone colpite e, in un luogo prossimo, ma separato, quelle che con esse abbiano avuto qualche tipo di contatto, non è stata presa senza seria ponderazione». Il Governo è dunque decisore unico, non c’è traccia di democrazia in quel mondo. L’isolamento è spacciato per atto di solidarietà, verso il resto della comunità nazionale. Ed è proprio nella forma dell’appello che Saramago riesce a dire ai suoi protagonisti l’indicibile: quegli uomini e quelle donne non dovranno aspettarsi più nulla.
Ma la vita forse, alla fine, vince comunque perché – in un’immagine poetica che lo scrittore ci regala – «la gioia e la tristezza possono fondersi, non sono come l’acqua e l’olio». Ed ecco che le parole di disperazione sanno di sopravvivenza: «Più sicuro, lui avanzò verso di lei. Dove sei, dove sei, mormorava come se pregasse. Una mano incontrò l’altra, un istante dopo erano abbracciati, un corpo solo, i baci cercavano i baci, a volte si perdevano nel vuoto perché non sapevano dov’erano i visi, gli occhi, la bocca».
Nello stile sembra non esserci alcuna apertura al convenzionale. Non troverà il lettore un codice neanche in termini di punteggiatura, né nomi propri a descrivere personaggi che sono invece maschere eterne. Un lessico riconoscibile, originale e personalissimo, profondamente umano. Saramago è uomo libero, le molte incursioni nella cronaca del suo e del nostro tempo ne sono un esempio. E continua a dimostrarlo ancora oggi, a quasi dieci anni dalla morte. Lo fa a suo modo, nella sua grande produzione letteraria che da quella libertà sembra tutta percorsa. A ogni pagina, come da filigrana in controluce, a svelare forse la cifra più autentica della sua immortalità.
Titolo: “Cecità”
Autore: José Saramago
Editore: Einaudi
Prezzo: 11 euro