Calcio, le ragazze della nazionale mica stanno a pettinare le bambole

Alessandro Alciato, Non pettinavamo mica le bambole, Baldini+Castoldi

Il 10 luglio 2006 un aereo atterra all’aeroporto di Pratica di Mare. È un volo molto particolare: riporta in Italia la Nazionale di calcio che il giorno prima, in una finale drammatica sportivamente parlando, ha vinto la sua quarta Coppa del mondo battendo ai rigori la Francia all’Olympiastadion di Berlino, Germania.

Su quell’aereo, insieme al calciatori azzurri, al ct Marcello Lippi e a “lei”, la Coppa, c’è anche un giovane giornalista meno che trentenne. È uno dei pochissimi giornalisti ammessi: il suo nome è Alessandro Alciato.

Tredici anni dopo, un altro Mondiale e ancora una maglia azzurra protagonista. Ma questa volta  è una rivoluzione: la Nazionale è quella femminile, che ritorna a disputare una Coppa del mondo dopo 20 anni di assenza. Ci arriva sottovalutata a livello internazionale, stupisce ed entusiasma. Diventa un fenomeno di massa anche se non vince il Mondiale: arriva quarta ma è quasi come se fosse prima.

Merito di un pubblico bulimico orfano di successi da parte dei maschi? Anche, forse. Merito, però, soprattutto, delle 24 giocatrici e della ct Milena Bertolini che le ha convocate. Le loro storie, soprattutto umane più che calcistiche, le racconta Alciato in un bel libro-collage «scritto in spiaggia, con le infradito», rispondendo alle domande di sua figlia: “Non pettinavamo mica le bambole – Le meravigliose storie delle ragazze della Nazionale” è il titolo.

Questa volta non c’è una Coppa da riportare in Italia dopo un Mondiale, ma forse c’è persino di più: c’è una nuova cultura – si spera – sportiva prima che calcistica. La Coppa arriverà, c’è da scommetterci leggendo la determinazione delle protagoniste e la saggezza della Ct. Se l’Italia evolverà il successo è solo questione di tempo.

Luglio 2019, Gallipoli. «Hei Saragama!». La cameriera del bar sotto l’appartamento al mare decide di chiamare così mia figlia. Che in effetti assomiglia un po’ alla capitana della Nazionale, soprattutto quando “libera” i capelli dai vari elastici colorati. Questa cosa del soprannome comunque è bella al di là della parentela… Evoca un calcio con l’anima, più umano, meno “Truman Show”, con meno sceneggiate in campo e fatto di storie che sono ognuna un romanzo.

Sara Gama, quella vera, nel 2006 quando la Nazionale ricca dei maschi “primedonne” vince la Coppa, lei, Sara Gama riceve il suo primo stipendio da giocatrice di Serie A: 100 euro al mese di rimborso spese! Non è uno scherzo. Fino a non molto tempo prima, in Serie B, paga per giocare: nel senso che contribuisce con le compagne alle spese della società dove milita.

Le storie delle giocatrici della Nazionale femminile sono piene di aneddoti: alcuni divertenti, come quello di Rosalia Pipitone, che gioca a piedi nudi in strada con gli amichetti. Si leva le scarpe per non farsi scoprire dalla madre, contraria alla sua passione per il pallone.

Altri (aneddoti) suscitano enorme ammirazione. Come quelli di Laura Giuliani: rientra in aereo dal Mondiale verso mezzanotte e il mattino dopo (dopo oltre due mesi di ritiro con la Nazionale) sostiene un esame all’Università e prende 28. Anni prima, quando gioca in Germania, si alza alle 3 del mattino tutti i giorni per lavorare da un panettiere, finisce all’ora di pranzo, e poi va ad allenarsi. Viene promossa in Bundesliga. E poi arriva la convocazione in Nazionale.

Vuole provarci qualche maschietto?

Altri ancora (aneddoti) fanno indignare, come il collega che mentre guardiamo una partita del Mondiale 2019 commenta: «Comunque le donne che giocano al calcio non si possono vedere». Del resto un altro collega pochi anni prima di fronte all’inquadratura di Mario Balotelli che canta l’inno Italiano con la maglia azzurra riesce a dire: «Un nero che canta l’inno di Mameli non si può vedere». Sono frasi che non fanno parte del libro di Alessandro Alciato, ma appartengono a un’Italia in cui si inseriscono le vicende di Barbara Bonansea, Linda Tucceri Cimini, Stefania Tarenzi. Le loro carriere se la vedono brutta proprio mentre stanno per spiccare il volo: una serie di società sportive poco illuminate, quelle in cui giocano agli esordi, si rifiutano di liberarle per consentire loro di andare in un’altra società. Devono lottare non poco. Hanno la meglio per fortuna dell’Italia e del calcio.

Nonostante il successo, nonostante il mondiale, nonostante la popolarità gli autografi e i selfie chiesti da tifosi e tifose, i pregiudizi non sono tutti superati. Ha ragione Manuela Giuliano, un’altra delle protagoniste di Francia 2019: «Al Mondiale l’Italia è diventata una delle otto nazionali più forti del pianeta». Tuttavia, prosegue, «spero di sbagliarmi, ma i pregiudizi, compresi quelli legati al calcio femminile, non spariranno mai completamente dal nostro Paese».

Leggendo le storie delle protagoniste azzurre e quella della Ct Bertolini una cosa emerge chiara: non saranno i pregiudizi residui o gli eventuali colpi di coda del sistema a fermarle. Così come non potrà essere fermata la rivoluzione innescata dal successo sportivo e d’immagine ottenuto in Francia. A cominciare dal riconoscimento del professionismo. Più di una giocatrice fa riferimento a questo passaggio come a una tappa fondamentale nella parificazione dei diritti con il mondo maschile. E qualcosa si muove. Dopo l’ok all’emendamento di fine 2019 che prevedeva i fondi necessari, a fine febbraio un altro tassello durante un consiglio della Federazione italiana giuoco calcio. Il presidente Gravina si dichiara «favorevole all’introduzione del professionismo nel calcio femminile valutando bene le tempistiche e l’effettivo impatto economico sulla Serie A. A tal proposito, la Figc ha avanzato tre ipotesi di lavoro che prevedono l’introduzione dalla stagione 2021/2022».

«… È compito della Repubblica – che siamo tutti noi – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È un passaggio dell’articolo 3 della Costituzione che nel luglio 2019 Sara Gama, numero 3 in campo, capitana della Nazionale, laureata in lingue e letterature straniere, cita nel suo discorso davanti al presidente Sergio Mattarella durante il ricevimento al Quirinale.

La Coppa, quella, è solo questione di tempo.


Titolo: Non pettinavamo mica le bambole. Le meravigliose storie delle ragazze della Nazionale – Prefazione di Gianni Infantino
Autore: Alessandro Alciato
Editore: Baldini + Castoldi
Prezzo: 17 euro

  • Sandro |

    Eh, beh, certo, il paragone con il calcio maschile regge proprio, eh…
    Basta dire che per battere una nazionale di calcio femminile, di alto livello (tra le donne, ovvio), bastano
    ragazzini di 15-16 anni di età…
    Signori, nello sport quella maschile è una superiorità indiscussa e indiscutibile.
    E non è solo superiorità atletica (quella è la natura che l’ha determinata).
    Tutti i progressi tecnico-tattici all’interno dei vari sport dove gareggiano i due sessi (ormai praticamente tutti) sono stati introdotti dal maschile.
    Dalla battuta al salto nel volley al rovescio a due mani nel tennis.
    Dal pick and roll nel basket al taglio sugli ingressi in curva nello sci.
    Non è un caso che quasi tutte le donne siano allenate da uomini.
    Anche i miglioramenti dei materiali, nascono in funzione delle prestazioni (e dei record) maschili.
    Il femminile nello sport è sempre migliorato a traino di quello maschile.
    Pure i nuovi sport che sono stati creati negli ultimi decenni (surf, windsurf, beachvolley, squash, downhill…) sono tutti stati inizialmente inventati e praticati da uomini.
    .
    Nonostante questa situazione asimmetrica, ciò su cui pervicacemente interessa al femminile è l’introduzione della questione “politica” relativa alla parità dei premi e degli stipendi.
    Compresa l’introduzione del professionismo anche in discipline con pochissimi introiti autonomi, se non esclusivamente quelli federali (pubblici).
    Questo devo dire, in perfetta linea con il paradigma (parassitario) femminista: aiuti, ripartizioni, quote, corsie preferenziali, spazi riservati…
    E’ in questa logica che si cerca di dimostrare, soprattutto da parte dei media, ma in maniera surrettizia e maldestra, che lo sport femminile “deve” essere “parificato” a quello maschile.
    Che esiste “l’esigenza” improrogabile di una parità di genere anche nello sport.
    Lo sport è uno degli ultimi territori di conquista del femminismo.
    Sicuramente quello più carico di simbolismo.

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