Arriverà nei prossimi giorni in Italia il Mindful parenting: la pratica della “Genitorialità consapevole” che in altri Paesi è presente da circa 15 anni e ha dato notevoli risultati, anche clinici. Si tratta di una formazione che applica i principi della mindfulness all’esperienza dell’essere genitore. Come dicono le autrici del metodo nel libro “Mindful Parenting: A Guide for Mental Health Practitioners”:
“La genitorialità è uno dei compiti più impegnativi e responsabilizzanti della vita per molti genitori, che lo fanno con amore, gioia, orgoglio e un senso di pienezza”.
Ma questo non lo rende un “lavoro” facile. Intanto perché, come il più intenso dei lavori, non si traduce solo in un ruolo ma è una vera e propria identità. In alcuni casi addirittura totalizzante, ma comunque sempre molto ingombrante: una relazione di primo grado con qualcuno che, a differenza di tutti gli altri grandi amori, difficilmente prendiamo in considerazione di poter lasciare. E poi, come se questo livello di prossimità non bastasse, la nascita di un figlio riporta in superficie con intensità il fatto di essere stati figli: anche solo perché guardiamo alla nostra esperienza con i nostri genitori per decidere cosa fare o cosa non fare.
“Ogni bambino può essere visto come un piccolo Buddha o maestro zen, il tuo insegnante di mindfulness privato…” Scrive Jon Kabat-Zinn, il fondatore della mindfulness, nel libro “Ovunque tu vada ci sei già”.
Che cosa ha di diverso un corso di mindful parenting da un corso che insegna a “fare i genitori”? Moltissimo, e soprattutto il fatto che sposta il focus dal figlio al genitore: dall’area di responsabilità all’area di potere. Durante le otto sessioni, i genitori apprendono infatti delle tecniche per fermarsi e guardare dentro di sé: mettere a fuoco in che modo sono genitori, da dove potrebbero derivare alcuni comportamenti, difficoltà e schemi, diventandone consapevoli e al tempo stesso, elemento fondamentale, sviluppando auto-compassione per tutto ciò che nel loro essere genitori sembra essere imperfetto.
Perché… chi ha mai incontrato un genitore che abbia fatto tutto giusto? La risposta la conosciamo, eppure: quanti sensi di colpa, di inadeguatezza! L’idea di genitore perfetto che abbiamo interiorizzato e ci redarguisce dallo specchio è tra le cause dello stress che ci fa agire in un modo che questa disciplina definisce “fare i genitori col pilota automatico”. Questa modalità del fare e non dell’essere (ho troppe cose da fare per rallentare a pensare a ciò che sono), viene trattata nella prima sessione del corso, mentre nella seconda sessione si sperimenta la “mente del principiante”: ossia di colui che osserva i propri figli come se li vedesse sempre per la prima volta. Il fatto di avere aspettative molto basse – innanzitutto verso sé stesso – consente al principiante di perdonarsi imperfezioni ed errori.
La sessione successiva riguarda il corpo, che spesso i genitori devono riconquistare come proprio. Se alcune esperienze possono sembrare troppo complesse da comprendere e spiegare, il corpo è, secondo il mindful parenting, il luogo dove trovare la verità. Se ascoltato, ci dirà sempre dove c’è un dolore, una paura o una risorsa, dando un segnale preciso delle emozioni che nasconde.
La quarta sessione tratta il tema del rispondere piuttosto che reagire allo stress e si può sintetizzare così: quando qualcosa ci fa paura o ci stressa tendiamo a comportarci in tre modi:
1) combatterla
2) sfuggirle
3) restare immobili (sperando che ci ignori)
Ma in nessuno dei tre modi la fonte dello stress sparisce. Il mindful parenting suggerisce quindi una quarta via, che è quella di “danzare” col problema: disinnescando lo stress grazie a un altro istinto della nostra specie, quello del prendersi cura. Danzare con ciò che ci rende iper reattivi vuol dire avvicinare la fonte dello stress, guardarla e restarle accanto, finché con ogni probabilità non ci dirà qualcosa di inatteso.
La quinta sessione va al cuore di qualcosa a cui di rado pensiamo: il fatto che si diventa genitori senza smettere di portarsi dentro l’essere figli. Questo fa sì che la nostra modalità genitoriale venga resa più complessa dalla presenza di schemi che provengono dalla nostra esperienza filiale. I quattro modelli principali interiorizzati sono:
il genitore esigente; il genitore punitivo; il bambino vulnerabile;
il bambino arrabbiato; e tante sfumature che li mettono insieme, che emergono soprattutto quando un comportamento o una situazione in cui siamo coinvolti come genitori tocca il grilletto di qualcosa che ci ha ferito come figli ed è ancora dentro di noi.
Nelle ultime sessioni si parla del conflitto e della riparazione, dell’amore e dei limiti. Il punto di partenza e il punto di arrivo sono ancora quelli: il primo bambino di cui essere consapevoli, per averne cura e trattarlo con gentilezza, è quello che ogni genitore porta dentro di sé.
“In noi vivono, senza inizio né fine, tutte le età della nostra vita, tutte le voci che aspettano risposta. Fare da genitori a noi stessi significa dare – a queste voci – ascolto. E molte volte l’ascolto è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per andare avanti”, dice la psicoterapeuta bioenergetica Nicoletta Cinotti, che per prima sta portando in Italia questa esperienza.
Non esiste il genitore perfetto, né il genitore “buono” o cattivo. Esiste un’esperienza universale di vita così forte da spingerci a generare e prenderci cura di altri esseri viventi, ed esiste una sofferenza universale che ci riguarda tutti di fronte alle sfide che l’amore e le relazioni ci pongono ogni giorno.
Ma siamo attrezzati, naturalmente. Anche se pensiamo di non avere tempo per essere consapevoli: “praticare pausa non è un fatto di tempo, ma di presenza” (Gregory Kramer).