Ci siamo accucciati accanto a una poltrona, a una sedia, a un camino tante volte da ragazzi accanto a un nonno o a una nonna che raccontava. Di quando avevano nascosto un inglese fra le botti del vino o un australiano nella rimessa del trattore. Di quando i tedeschi vennero a bussare alla porta e la giovane zia andò ad aprire e morì di crepacuore. Del nonno morto fucilato in piazza.
Noi quarantenni li abbiamo ascoltati, abbiamo chiesto con parsimonia e rispettato i silenzi. Abbiamo visto le ombre nei loro occhi e le assenze dei loro sguardi. Poi gli anni sono passati, molti hanno perso la memoria, altri non hanno avuto più voglia di raccontare. E pochi sono rimasti a testimoniare la storia, che dai libri si impara solo per date e battaglie e poco per polvere, sangue e paura.
Nell’ultimo anno, poi, ci hanno lasciato diversi testimoni della liberazione che celebriamo oggi. A fine 2018 è stata la volta di Angelo Villa, classe 1927. Durante la guerra lavorava per la Breda, nel maggio del 1943 riceve la chiamata alle armi, ma qualche mese più tardi le abbandona scegliendo di nascondersi nelle campagne di Paderno iniziando così la sua avventura partigiana con la brigata San Giusto di Lambrate.Di lui i giornali locali raccontano: “Ha iniziato con attività di volantinaggio di propaganda antifascista per passare poi al sabotaggio degli impianti elettrici utilizzati dai soldati tedeschi e fascisti. Nel novembre del 1944 scopre di essere disperso e così può fare ritorno a casa. Torna a lavorare per la Breda dove aderisce alla 167° Brigata Garibaldi. Di giorno lavora, di notte prosegue le azioni di sabotaggio della produzione bellica destinata ai tedeschi. In questi anni il rischio della deportazione è altissimo. Ben 400 lavoratori della Breda vengono deportati, Angelo riesce a sfuggire ad uno di questi reclutamenti con deportazione in Germania”.
A novembre era morto il Comandante Eros, partigiano combattente che rifiutò la medaglia al valore assegnatagli per le ferite durante un combattimento sulle Prealpi Trevigiane, chiedendo che fosse assegnata invece a un compagno caduto. Umberto Lorenzoni aveva 92 anni: durante la guerra partigiana militava nella divisione “Nino Nannetti” del battaglione “Castelli” della Brigata Piave. In aprile era mancato a 91 anni Otello Montanari, ex partigiano comunista ferito gravemente in uno scontro a fuoco con le SS italiane nel 1945, ex deputato del Pci, allievo di Nilde Iotti. Un nome, quello di Montanari, che porta con sé anche una ferita grande, quella degli omicidi degli ex partigiani. Perché quando si racconta, la sotria, si deve raccontare tutta, e così fece lui. Nel 1990 ruppe il silenzio sui delitti politici dell’immediato Dopoguerra nel “triangolo rosso”, con un’intervista che si concludeva con l’appello «chi sa parli».
Poco prima, sempre in aprile, erano morti a pochi giorni di distanza i coniugi Nerina Lanzoni, 95 anni, era sorella del partigiano Selvino, e Alfonso Merzi, 99 anni, combattente nella battaglia di Gonzaga e presidente della sezione locale dell’Anpi. In febbraio, invece, se n’era andata la partigiana di Varese Edmea Maggiolo, classe 1920. Di lei raccontano: Dopo l’8 settembre 1943 Edmea con l’aiuto di Poldo Gasparotto inizia ad aiutare a scappare in Svizzera i soldati sbandati attraverso i boschi di Cantello. Per evitare di doversi unire all’Associazione degli universitari fascisti diventa crocerossina.
Muovendosi sempre in bicicletta, mascherata dalla divisa ospedaliera, riesce a tenere i collegamenti tra alcuni dei primi gruppi partigiani intorno a Verbania e il Comitato di Liberazione di Milano e Busto Arsizio. Si reca a Fossoli intorno al campo di concentramento per avere notizie dei varesini deportati ed è la prima a sapere dell’uccisione di Poldo Gasparotto. Di nuovo a Varese nel marzo del 1945 si scopre ricercata e scappa in montagna unendosi ai partigiani della brigata Cesare Battisti in Val Grande. Qui conosce il partigiano Ezio Bassani, suo futuro marito.
Perché ho voluto ricordare le morti dell’ultimo anno? Perché è memoria che se ne va e che non possiamo permetterci di perdere. Chi di noi ha un nonno/a o un bisnonno/a che ha vissuto la liberazione, se lo faccia raccontare, scriva i ricordi o li registri. Perché i nostri figli avranno delle domande e cercheranno delle risposte, che noi forse non sapremo dare loro. Io non ho risposte da dare a mio figlio che chiede cos’ha vissuto il nonno nel campo di concentramento, cosa ha visto, come ne è uscito e come è tornato a casa. Mio nonno non ne parlava e noi abbiamo solo un documento del ministero della Difesa, che ci dice che fu deportato nei lager e rifiutò la liberazione per non servire sotto i tedeschi.