Felicità: impariamo dagli Xennials a sognare

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«L’Assemblee generale, consapevole di come la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità, riconoscendo inoltre la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone, decide di proclamare il 20 marzo la Giornata Internazionale della Felicità.”
Assemblea generale ONU, 28 giugno 2012

La settimana scorsa abbiamo dunque festeggiato la giornata che l’Onu ha voluto dedicassimo al pensiero della felicità. Un pensiero da sempre sfuggente e indefinibile, ma a cui tutte le nostre azioni si aggrappano per trovare un senso. Viviamo, scegliamo, lavoriamo, progettiamo per essere felici. La saggezza orientale ci insegna poi che la felicità non è una tappa, ma è il viaggio stesso. Le riflessioni sul tema sono infinite. Ma le parole che sceglie l’ONU per parlarci della felicità sono emblematicamente legate a un’idea di produttività.

Nell’ultimo decennio gli economisti hanno cominciato a sottolineare come il benessere di una nazione non possa essere misurato solo in termini di PIL, ma debba rispondere a dei parametri che hanno a che fare con un’idea più ampia di benessere. Lo spiega bene l’economista Michael Green in un TED, in cui racconta di come già nel 1934 un altro (eroico) economista abbia lanciato un sassolino, affermando che il benessere di una nazione non può essere dedotto da una misurazione del reddito. Vi sono altri indicatori, indici di progresso sociale, e hanno tutti a che fare con la salute, l’accesso allo studio, la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, le relazioni sociali, la percezione della bellezza.

Ma non tutti aspettano di sapere da una statistica se nella nazione in cui vivono la gente sia mediamente felice, e se possono concedersi dunque di appartenere a quella media. Ci sono persone che contribuiscono a muovere i dati, con le loro scelte di vita e i loro valori, nella quotidianità e nel lungo termine dei progetti professionali. Spesso è una questione generazionale: la sensazione di non avere nulla da perdere, vivendo in un momento di crisi economica e delle politiche del lavoro, spinge i 30-40enni a non accontentarsi di una sopravvivenza professionale, cercando sempre qualcosa in più. Forse proprio la felicità.

letizia-dei-fioriLetizia Vanacore, fiorista freelance di 31 anni operativa a Milano, è d’accordo sul farne una questione generazionale: “Sarà che non ci aspettiamo più niente” dice. “Siamo abituati a pensare che là fuori è così e dobbiamo cavarcela. Stare sul filo del rasoio senza particolari sicurezze. Da una parte è frustrante, come lo è stato per me per diversi anni. Ma dall’altra parte è positivo, perchè siamo spinti a cercare di più e meglio. Prima si cercava solo il lavoro fisso. Adesso vogliamo altro. E il fatto di non avere una struttura programmata diventa positivo, ci porta a goderci le scelte, affondare nelle passioni, sognare”.

leti_di_tutto_01Il percorso di Letizia è partito subito con una certa dose di consapevolezza: la scelta universitaria non rispondeva a un progetto professionale, ma a un più semplice e non scontato amore per la cultura. “Ho scelto antropologia, ma non perchè immaginassi di fare l’antropologa. Non avevo idea di cosa volessi fare, ma intanto volevo studiare. Non mi sono mai pentita di averlo fatto, per la struttura che mi ha dato lo studio, la voglia di andare sotto la superficie delle cose che so per scoprire quelle che non so. Tutta l’esperienza è stata formativa, dalla gestione del tempo, alla convivenza e al confronto”.

leti_di_tutto_24Di fatto però, nonostante le insistenze familiari, Letizia non ha mai nemmeno provato a trasformare quella laurea in un lavoro nel settore. Mentre aspettava di decidere cosa voleva fare, si arrangiava tra un lavoretto e l’altro, senza metterci troppo cuore, anche all’estero, un anno in Spagna, un anno nel Regno Unito, il servizio civile. Nel frattempo una coincidenza ricorrente legata ai fiori e alle piante le risvegliano un amore nato nell’infanzia, nel giardino della nonna. Finché capisce che è l’intuizione giusta, che è quello che desidera, è ciò che le fa brillare gli occhi. Tanto basta per una scelta importante come lasciare un contratto a tempo indeterminato e cominciare a fare la fiorista a tempo pieno. Nel giro di due anni di collaborazione con un negozio, si fa conoscere e punta all’indipendenza: apre la partita iva e ora tutti la conoscono semplicemente come Letizia Dei Fiori.

leti_di_tutto_27Inizialmente è stato difficile far capire ai vecchi clienti la differenza di prezzo dovuta al regime della partita iva: molti non sono disposti a capire il costo che ha per noi, come già non capiscono tutto il lavoro che c’è dietro”. Letizia mi racconta che spesso deve lavorare di notte per via della deperibilità dei fiori, dice che la vita è più faticosa, ma che la sensazione di essere al posto giusto non ha prezzo. Solo verso la fine della nostra chiacchierata torna un velo di quella solitudine generazionale, quando le chiedo se si senta sufficientemente tutelata in questa sua nuova vita professionale: “Io per carattere non mi preoccupo molto, so che in qualche modo me la cavo. Se ci saranno periodi di poco lavoro o malattie, ci penserò quando succederà. Ho fatto così tanti lavori che so che qualcosa da fare la trovo, non sono mai rimasta più di 10 giorni senza lavorare”.

Ecco come la flessibilità si è trasformata in pragmatismo. Mentre l’altra faccia della medaglia, quella più luminosa, continua a raccontare storie di rinascita e valori che contribuiscono a nobilitare e umanizzare il nostro PIL. Ed è su questo lato della medaglia che è inciso il motto di Letizia Dei Fiori:

“Se una cosa la penso e la sogno, allora la posso fare”.

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