La violenza domestica: un orrore che travolge anche i figli

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La violenza contro le donne colpisce anche i bambini, perché assistono o perché ne sono vittime anch’essi. Perché, nei casi di femminicidio, diventano “orfani speciali”. Questo brano è tratto dal libro “Femminicidio e violenza di genere. Appunti per donne che vogliono raccontare”, di Maria Concetta Tringali (autrice di questo post)

Uccisi dai padri perché riflesso delle madri.

«Un dramma improvviso, forse maturato per un crisi di coppia: così i carabinieri ricostruiscono il raptus di R. R., l’uomo di 47 anni che stamattina nella sua casa di San Giovanni La Punta, poco distante da Catania, ha ucciso a coltellate la figlia Laura, di 12 anni».

Questa la primissima versione dell’edizione locale de “La Repubblica”. I fatti sono messi in fila maldestramente, l’uso delle parole è frutto di una scelta sbagliata: si finisce per parlare di raptus. La verità però ci dice tutt’altro.

È notte e Laura che non ha nemmeno 13 anni dorme nel lettone, vicino alla sorella maggiore. Di là i due fratelli, anche loro più grandi di lei che è la piccola di casa e lo rimarrà per sempre. Non è una notte come le altre, la mamma non c’è. In camera da letto, c’è solo R. R., il padre dei quattro figli.

Avevano trascorso una serata tutti insieme, senza di me, era forse la prima volta. Mio marito aveva portato i ragazzi a mangiare un panino al carrozzone, di quelli per strada che fanno gli hamburger. Avevano riso e scherzato. Di quella serata avevano postato foto su Facebook. Si erano divertiti, e io ne ero contenta. Li avevo sentiti al telefono per dar loro la buona notte. Credevo che lui stesse cambiando, che la nostra crisi stesse creando le condizioni per un rapporto autentico, almeno con i figli. Lui non lo aveva mai avuto. E invece già lì covava la peggiore delle vendette.

Così, dopo una sorta di premessa alla tragedia, Giovanna, la mamma di Laura, comincia a raccontare quella notte di qualche estate fa.

Non c’erano mai stati episodi di violenza, prima di quel gesto!

L’espressione è ancora incredula, dopo quasi quattro anni dai fatti.

Ho capito solo dopo che lui è un uomo che non sa amare, non è in grado di provare sentimenti. A quell’epoca avevo scoperto un tradimento che durava da sette anni. Aveva un’amichetta e io lo avevo saputo per caso. Era stato un colpo durissimo. Mi ero allontanata da lui, avevo bisogno di riflettere. Mi sentivo offesa e non avevo più fiducia in lui. Lo vedevo come un estraneo, un bugiardo, un uomo che non conoscevo. Poi, a un certo punto, quell’altra relazione finì. Ed è lì che lui cominciò a volere il mio perdono, a pretenderlo senza dirlo.

Giovanna ha lo sguardo di chi sa, col senno di poi, cose che non aveva intuito al momento.

La sera prima della tragedia mi aveva chiamata, voleva accertarsi che fossi sola perché aveva bisogno di parlarmi. Ci siamo visti, nella casa di montagna dei miei, dove mi ero rifugiata per riflettere un po’. Non avevamo litigato, gli avevo chiesto del tempo. Mi serviva per capire, per decidere. Ma ero sincera. Era difficile, perché in fondo gli volevo bene. Era stato mio marito ma ancora prima era stato il mio unico fidanzato. L’ho conosciuto che avevo tredici anni. Una vita insieme.

E poi, quella notte del 22 agosto. L’omicidio. Con un coltello stretto in mano, preso dai cassetti della cucina, quel padre che si avventava sulla piccola, e lei che faceva solo in tempo a urlare tutto il terrore del momento. I fratelli allarmati da quelle grida riuscivano a disarmare l’uomo. Laura moriva in ambulanza poco prima di giungere in ospedale. La sorella invece, ferita gravemente, veniva ricoverata in ospedale.

Io arrivavo a casa, mi facevo strada tra la folla che si era già assiepata davanti al portoncino. Noi abitavamo, in una zona centrale del paese. C’era una lunga scala che portava alla porta e lui era appena uscito, accompagnato dai carabinieri. Lo guardavo, vedevo il sangue, e qualcuno aveva appena fatto in tempo a dirmi che non era per lui che avrei dovuto preoccuparmi.

Già, non era per lui ma era di lui che doveva preoccuparsi. Questa verità Giovanna la conoscerà presto quello stesso maledetto giorno di agosto e ci farà i conti per tutta la vita. Senza ritorno.Il 30 ottobre del 2017, riconosciuta la piena capacità di intendere e volere dell’imputato, la prima sezione della Corte d’Assise del Tribunale di Catania ci mette tre ore di camera di consiglio per decidere. La sentenza è una condanna all’ergastolo per l’imputato, isolamento diurno per quattro mesi e la perdita della responsabilità genitoriale. Da solo, senza la possibilità di parlare con nessuno per tutto il giorno. In una cella, con il ricordo di ciò che ha fatto alla figlioletta, così possiamo immaginarlo.

Giovanna nel suo racconto si blocca, sgomenta. Poi racconta che quell’uomo ha avuto il coraggio di parlare all’ultima udienza. S’è alzato da dietro le sbarre e ha chiesto ai giudici di essere sentito. C’era la figlia maggiore, in aula. Ed era la prima volta che la ragazza riusciva ad assistere al dibattimento. Lei che non aveva potuto partecipare nemmeno ai funerali della sorellina, perché uscita dal coma proprio quel giorno.

La speranza era sentirgli dire una parola di scuse, che avrebbe mostrato pentimento per quel gesto che gli aveva lasciato addosso la macchia della colpa più grave. Ma, invece, niente. La scena gli serviva per contestare la perizia psichiatrica che lo aveva riconosciuto perfettamente in grado di decidere della morte della bambina.

Siamo le nostre azioni, non tanto le nostre parole. Siamo i nostri gesti. E l’immagine di quell’uomo che se ne sta richiuso in carcere, fisso tra sé e sé, a riflettere sul peggiore dei crimini compiuti svanisce di colpo. E c’è anche di più. Appena qualche settimana prima della scadenza dei termini di impugnazione, l’uomo ha presentato appello. In questa storia l’idea di cancellare la punizione è più forte di qualsiasi altra spinta, più forte del peggiore dei crimini. Dove non c’è coscienza, non c’è mai nemmeno pentimento, né potrebbe esserci. La sentenza di colpevolezza tuttavia è stata confermata anche in secondo grado: ergastolo.

La cronaca in questi anni ci ha consegnato altri padri assassini. Storie di minori violati e perfino uccisi. Il dramma è davvero il più nero che ci si possa immaginare. La sopraffazione, l’abuso che finiscono nel sangue sono perpetrati da chi ha dato la vita. Oggi Giovanna sa che bisogna reagire, che la vita va avanti. Lo sa dopo quei momenti tragici, nei quali si arriva anche a pensare di farla finita. E ha saputo trasformare il dolore nella forza della testimonianza.

I primi mesi dall’assassinio di mia figlia ero come annientata. Al principio le mie giornate passavano sulla tomba di Laura. Entravo al cimitero che era mattina, me ne andavo che era la chiusura. La mia bambina era lì e io non potevo essere altrove! La mia vita si era fermata, con la sua morte. Poi con il tempo, nell’urgenza di raccontare ho capito che c’era un messaggio che adesso è una missione.
L’idea che la violenza domestica debba rimanere tra le mura di casa l’ho sentita su di me. Quello che io faccio, portando nelle scuole il racconto di ciò che è successo a Lauretta, ad alcuni dà persino fastidio. Non ho trovato solo gente sensibile e pronta ad ascoltare in questi anni. C’è stato anche chi mi ha criticato. La mia colpa era di avere scoperchiato quel pentolone. Io parlo di questa tragedia, perché mantengo Laura in vita, tra noi. Lei è con me, quando incontro i ragazzini delle scuole, lei vive in me. A volte sono così piccoli che non so come spiegare l’atrocità di un padre assassino, allora sento di parlare con le parole che lei mi suggerisce. Aveva un sogno, la mia bambina, e vorrei un giorno realizzarlo; ma è un’altra storia, questa. Voleva diventare veterinaria e aiutare gli animali più sfortunati, i cani randagi. Io immagino la fattoria che lei desiderava, con i ragazzi in difficoltà che imparano l’amore dalle bestiole prendendosene cura. Penso ai minori che hanno subito condanne penali, a chi delinque, ma può ancora redimersi e può sognare un domani diverso.

Sono parole di speranza, quelle di questa madre, che danno chiara l’idea di come anche dal male possa venire fuori un raggio di luce, a rischiarare questa umanità senza cuore. Giovanna racconta la storia di Laura affinché i ragazzi capiscano dove può annidarsi l’orrore. Ma non parla solo di prevenzione, o almeno non lo fa solo ponendosi nell’ottica della vittima. Al contrario – nonostante il dramma subito – prova anche a mettersi dall’altra parte. Spiega con grande semplicità che non c’è salvezza se non si lavora con i giovani:

L’idea che ho quando entro in una classe piena di ragazzini è di trasmettere loro la speranza. Si può arginare la violenza, se si chiede aiuto. Io credo davvero che occorra guardarsi dentro e se vediamo un baratro, allontaniamoci! Subito! Non è vergogna chiedere aiuto! Chi sente montare in sé la rabbia, chi capisce che sta covando un proposito di vendetta, chi intuisce di non essere in grado di gestire le emozioni più travolgenti, deve provare a farsi aiutare, perché dopo può essere tardi. Deve! Una volta che si è diventati assassini non c’è più molto da fare, quelle sono perdite che non si recuperano. Si distruggono vite intere, la vittima per prima e con lei i suoi affetti, ma anche la propria vita e la propria famiglia. Un deserto che non lascia scampo. Per nessuno.

Giovanna lavora per questo, vive per questo e Laura con lei. Nelle storie di maltrattamenti le vittime sono dunque di solito più di una. A farne le spese, oltre alla donna, ci sono sempre anche i più piccoli. Frequentemente sono minori, spesso in tenera età. E i numeri sono preoccupanti. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio rileva che «il 72 per cento delle donne ha figli, metà dei quali ha subito violenza assistita o diretta».


tringaliLa violenza domestica è un fenomeno strutturale globale che ha radici culturali e che causa la morte di una donna ogni due giorni, per mano del partner o ex partner. Il fenomeno coinvolge anche i bambini che, quando non fanno la fine di Lauretta, restano comunque parte offesa.

La definizione è entrata nel linguaggio comune e ancor prima in quello della giurisprudenza. Si mutua un termine inglese – “witnessing violence” –  per raccontare la violenza subita dal minore per il fatto stesso di essere testimone di un episodio traumatico o semplicemente soggetto collateralmente coinvolto. Stiamo parlando di abusi fisici, psicologici, sessuali e spesso anche economici agiti sulla madre (che è figura affettiva di riferimento) dall’altro genitore.

Gli effetti distruttivi di tale esperienza sulla psiche dei minori possono avere effetti davvero indelebili. L’inevitabile trasferimento del modello potrà spingere poi quei bambini a riprodurre, una volta adulti, le dinamiche vissute nella famiglia d’origine.

Il testo è tratto daFemminicidio e violenza di genere. Appunti per donne che vogliono raccontare“, di Maria Concetta Tringali (autrice di questo post), Edizioni SEB27, Torino, Marzo 2019