In tempi nei quali la solitudine sembra essere un’epidemia e i social media trainano con forza verso un modello di relazione che si accontenta del “rimanere in contatto”, le manifestazioni che nelle ultime settimane hanno riempito le strade di Milano – “Prima le persone” contro ogni forma di discriminazione e la marcia di venerdì scorso, che ha coinvolto milioni di giovani in tutto il mondo sul tema dell’emergenza climatica – mi sono sembrate una curiosa anomalia sulla quale interrogarsi. Tra i tanti possibili livelli di lettura, mi è parso infatti che portassero il seme di un cambiamento, che esprimessero in modo garbato ma dirompente una serie di bisogni umani che negli ultimi anni ci siamo abituati a trascurare.
Il primo bisogno è quello di comunità. Mi sono chiesta se la dis-connessione dagli altri, quell’insieme ma soli ormai divenuto slogan rassegnato di una società digitale che genera sempre più ansia e depressione, non stia incontrando un limite, a livello sia psicologico che biologico. “L’intersoggettività è condizione di umanità”, scriveva Daniel Stern, psichiatra e psicoanalista statunitense, mostrando con i suoi studi che l’essere umano, fin dalla nascita, è programmato per relazionarsi con gli altri e che la mente è intrinsecamente interazionale, interpersonale, sociale. Le neuroscienze lo confermano: accanto agli studi che rivelano come l’esclusione attivi nel nostro cervello le stesse aree del dolore fisico, una ricerca presentata al recente convegno annuale della Società di Neuroscienze a San Diego ha evidenziato come l’isolamento sia dannoso per i mammiferi, al punto da trasformarne l’architettura cerebrale. Quando topi cresciuti in ambienti stimolanti venivano sottoposti a lunghi periodi di isolamento, si riscontravano infatti una serie di modificazioni riguardanti la densità di spine dendritiche, la produzione di proteine che stimolano la crescita neurale e i livelli di cortisolo, ormone dello stress. Se numerosi studi di neuroscienze hanno esaminato la ricompensa sociale derivante dai processi di inclusione, fino ad ora nessuno aveva analizzato la spinta motivazionale a ricercare il contatto sociale. Mattew e i suoi collaboratori, in uno studio apparso sulla prestigiosa rivista Cell, si sono focalizzati proprio su questo, evidenziando come in risposta a stati di isolamento nei mammiferi si attivino i neuroni dopaminergici di una regione cerebrale chiamata nucleo dorsale del rafe, i quali avvierebbero meccanismi che rendono maggiormente desiderabile il contatto e promuovono un comportamento di ricerca dei propri simili. Esisterebbe, insomma, un meccanismo biologico selezionato dall’evoluzione che, in modo simile alla fame, spinge le persone verso l’interazione sociale di cui hanno bisogno per sopravvivere e sentirsi protette.
Se la fruizione individualizzata di alcune tecnologie (dagli smartphone alla VR) e la comunicazione mediatica ci indirizzano verso un progressivo azzeramento dei momenti di aggregazione collettiva vis a vis, questa gioia dello stare insieme nelle strade sembra parlare di una direzione diversa, di senso contrario: del nostro bisogno di stare con gli altri, di guardarci e sorriderci, di tenerci per mano e unire le nostre voci, ritrovando il significato dell’appartenenza ad un gruppo.
Il secondo bisogno che le manifestazioni di queste settimane lasciano intravvedere è quello di una riscoperta dei valori quali fattori motivazionali e aggregativi. Non più solo l’utile, ma l’utilità dell’inutile direbbe Nuccio Ordine, non più solo l’approccio pratico e razionale, viatico per il cinismo (lo stesso che porta a frasi quali: “Non basta una manifestazione per abbassare la temperatura e migliorare il clima” o “È tutta una montatura mediatica”) ma l’ideale e il sogno. “Lentamente muore/[…] /chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,/chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati”, scriveva la poetessa Martha Medeiros.
Mi chiedo, infine, se non stia emergendo il bisogno di un orizzonte di lungo termine. Intrappolati nella spontaneità e nell’istantaneità, ripiegati su noi stessi e sul nostro smartphone, non sorprende che molti avvertano la necessità di sollevare gli occhi dal proprio ombelico, di ritrovare una postura eretta, guardarsi intorno e spingere lo sguardo più in là. “L’arte di calcolare il tempo, di prendersi il proprio tempo, al giorno d’oggi è sempre più ardua da praticare a causa dei nuovi mezzi tecnologici che ci fanno vivere in un mondo di spontaneità immediata, nella dimensione dell’istantaneità. Ritengo che in questa spontaneità risieda un pericolo perché la relazione tra le persone richiede tempo. Esiste un gran numero di esempi di spontaneità collettiva sfociata in veri e propri disastri, e occorre ricordare che non c’è niente di più spontaneo della violenza”, scrive Marc Augé nel suo libro Prendere Tempo (e noi immediatamente pensiamo ad altre strade, con i gilet gialli che danno alle fiamme Parigi).
Protagonisti di questo che spero e voglio credere sia l’inizio di un cambiamento, o almeno il segnale di un forte desiderio di cambiamento, sembrano essere soprattutto gli adolescenti. A Greta Thunberg – al di là dei contenuti specifici della protesta – va riconosciuto il merito di essere stata capace di riunire attorno a sé migliaia di ragazzi in tutto il mondo, canalizzando energie già presenti e facendosi portavoce di un’altra adolescenza possibile. Stanchi di essere identificati con la generazione degli ikkikomori, di essere considerati afasici e invisibili, disinteressati e sdraiati, molti ragazzi hanno un’incontenibile voglia di riunirsi (pacificamente) attorno ad un ideale, desiderano una partecipazione effettiva e un ruolo attivo nella società.
Nelle manifestazioni dei giorni scorsi ho colto una scintilla, l’occasione per un cambiamento che ci riguarda tutti. Ma come ci ricordano i greci, che indicavano con il termine Kairos l’opportunità da cogliere nel suo istante fuggevole, mentre il tempo (Chronos) scorre, perché sia propizio, il momento deve essere raccolto: cosa non facile perché, come suggerisce l’iconografia, Kairos è un giovane con le ali sulla schiena e ai piedi, con un ciuffo di capelli sulla fronte e la nuca rasata. Non affoghiamo allora gli ardori adolescenziali nel cinismo. Non offriamo risposte accondiscendenti e rassicuranti a questi ragazzi, con l’obiettivo di zittirli e spegnere la loro voce. E non affidiamo loro la responsabilità e l’onere di risposte che solo gli adulti possono dare. Raccogliamone piuttosto il coraggio, lo sguardo al futuro e l’invito a scriverlo insieme, recuperando il senso di un noi che da tempo è coperto dalla cantilena assordante dell’io.