Terapia Goliarda: lasciarsi contagiare dall’«arte della gioia»

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Avvertite sulla pelle lo scarto tra le parole e i fatti? Tra un mondo che beatifica la vostra potenza creatrice ma non fa niente per migliorare la vostra vita di madri? Tra le opportunità tutte pari sulla carta e incredibilmente dispari nella realtà? Tra la narrazione del rispetto delle donne e la continua oggettivazione del corpo femminile che vi fa sentire merci di scambio, strumenti senza autonomia, “cose” di proprietà di qualcun altro? Percepite l’abisso fastidioso tra le vostre intenzioni di essere libere e ciò che riuscite a mettere davvero in pratica? C’è una terapia che fa per voi: i libri di Goliarda Sapienza. Un viaggio per lasciarsi contagiare dall’“Arte della gioia”, dal titolo del romanzo postumo pubblicato integralmente solo nel 2005, che la impegnò dieci anni e che è il suo vero manifesto letterario ed esistenziale.

L’Arte della gioia e l’antifrasi di Modesta
Impossibile, nel nostro itinerario, non partire da lì. Dalla straordinaria figura della protagonista Modesta, venuta al mondo il 1° gennaio del 1900, capace di raccontare l’intero Novecento – le due guerre, il fascismo, l’antifascismo, la Repubblica – come nessun’altra eroina o anti-eroina della letteratura italiana: da quel “margine” fisico (la Sicilia) e simbolico (il femminile) di cui molti anni dopo la femminista afroamericana bell hooks avrebbe tessuto l’elogio. Modesta si muove nella storia, la sua e quella dell’Italia del secolo scorso, alla stregua di una fiamma che avanza in un bosco. Uccide e brucia, scandalizza, ma soprattutto illumina. Nata nella miseria, violentata dal padre, privata dell’affetto della madre, a colpi di erotismo, spregiudicatezza e intelligenza Modesta diventerà la colonna portante, anche a livello amministrativo, di una ricca famiglia aristocratica. Sarà poeta, amante di donne e di uomini, sposa, madre naturale e adottiva, nonna, attivista politica, detenuta, lettrice onnivora. Sarà l’opposto del suo nome, ed è in effetti l’antifrasi la cifra possibile con cui attraversare la sua vita e leggere l’intero volume: una scossa, senza alcuna retorica, ai significati e alla morale convenzionale.

La fiducia nella sovversione delle convenzioni, anche linguistiche
 Il personale si fa politico in ogni passaggio, in ciascuno dei dialoghi tra Modesta e i suoi interlocutori. Qui parla con suo figlio:
«E va bene Prando, te l’ho detto e te lo ripeto: io voglio essere indipendente dagli uomini come Lucio. E state attenti perché di questo passo quando le donne si accorgeranno di come voi uomini di sinistra sorridete con sufficienza paternalistica ai loro discorsi, quando la tua Amalia si accorgerà di non essere ascoltata e di fare due lavori sfinendosi davanti ai fornelli e in laboratorio – perché non mi parli mai del lavoro di Amalia, eh? Perché devo sentire solo quanto è dolce, carina o gelosa? – quando si accorgeranno la loro vendetta sarà tremenda, Prando»
Qui è invece con la nutrice Stella, generando una conversazione che tutte le madri di figli maschi dovrebbero memorizzare e ripetersi come un mantra:
«Ma è bello il tuo ’Ntoni, Stella!
– Eh… bello, principessa! ma capriccioso e caparbio è! tutto suo padre. Lo sento ca come a lui mi farà penare.
– Non è detto, Stella, se tu lo saprai crescere diversamente.
– Lei dice, principessa, ca un destino si può cangiare?
– Tutto si può cangiare, Stella»
In questa fiducia nella possibilità di cambiamento sta il valore esemplare dell’esperienza di Modesta, donna selvaggia come nessuna (nel senso dell’archetipo esplorato in “Donne che corrono coi lupi” da Clarissa Pinkola Estès): l’arte della gioia come slancio vitale non episodico, pratica quotidiana sovversiva in ogni ambito dell’esistenza, che si ravvisa persino nella prosa, sperimentale come il metodo suggerito. L’ermetismo è bandito, la lingua è tutt’uno con la Sicilia assolata, sensuale e decadente che fa da sfondo al romanzo, la voce narrante oscilla tra la prima e la seconda persona. Fino alla fine, quando la protagonista ormai sessantenne sente ancora la gioia «piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura», ma poi è un’altra voce che la esorta: «Dormi, Modesta? No. Pensi? Sì. Racconta, Modesta, Racconta». Rivoluzionario l’approccio, che ricorda quel «raccontami la mia storia» analizzato da Adriana Cavarero in “Tu che mi guardi, tu che mi racconti” (Feltrinelli, 1997): l’urgenza di una prospettiva altra per ricomporre i «frammenti dispersi». L’unica strada che Virginia Woolf riconosceva come utile ad allontanare il dolore.

La gioia di Modesta, la sofferenza di Goliarda
Come una nemesi, la gioia di Modesta fu la sofferenza di Goliarda, che finì di scrivere il romanzo nel 1976 e fino alla morte in miseria e solitudine a Gaeta, per vent’anni, se lo vide rifiutare dagli editori. Soltanto quando il libro divenne un caso letterario Oltralpe, nel 2005, fu pubblicato integralmente anche in Italia. «La Francia, al contrario dell’Italia, ama molto la trasgressione, per cui il successo enorme de L’arte della gioia da noi si deve esattamente a tutto quello che l’ha fatto rifiutare da voi», ha spiegato in un’intervista la traduttrice Nathalie Castagné. Modesta era troppo “oscena” (nel senso etimologico di ob scenum, fuori scena) per il nostro Paese. Un personaggio scomodo negli anni Settanta e ancora scomodissimo oggi, in tempi di caccia al gender, difese della famiglia naturale e conservatorismi di ritorno.

I libri autobiografici: una vita nel segno dell’anticonformismo
C’è anche altro: Modesta ha pagato il prezzo dell’anticonformismo che apparteneva alla stessa Goliarda, figlia dell’avvocato socialista siciliano Peppino Sapienza e della nota sindacalista lombarda Maria Giudice, cresciuta prima a Catania in una famiglia allargata e aperta, ai limiti del promiscuo, e poi a Roma per fare l’attrice teatrale, con una parentesi da partigiana. Nell’ambiente di sinistra del cinema romano degli anni 50, che frequenta con il compagno Citto Maselli, Goliarda recita, gira documentari, scrive sceneggiature, ospita gli amici nella celebre casa di via Denza. Ma non diventa mai “organica” per opportunismo politico. Ricostruisce la sua infanzia non convenzionale in “Lettera aperta”, pubblicato da Garzanti nel 1967 con l’editing di Enzo Siciliano. Un’autobiografia senza sconti, altra miniera di riflessioni sul femminile e le sue ombre. «Come tutte le donne, essendo intelligente – scrive Goliarda – dovevi esserlo più di un uomo; coraggiosa più di un uomo. Ma non si sfugge alla propria natura: puoi sì affamarla, costringerla al silenzio anche per molto tempo; ma prima o poi la sua fame la spinge fuori coi denti, le unghie affilate e ti dilania le carni e le vene». Toccanti le scene con la madre, amatissima, che si trasferì con lei nella Capitale per aiutarla a inseguire il sogno del teatro, sogno della cui autenticità l’autrice si interroga più volte. Desiderio intimo o ancora una volta inculcato e fatto proprio per compiacere gli adulti? Il genere memoir continua con “Il filo di mezzogiorno”, uscito nel 1969: il racconto della sua psicoanalisi a tratti molto poco ortodossa, durata tre anni e cominciata dopo un elettroshock, che è una meta-analisi su normalità e follia. «In questo secolo di religiosità scientifico-tecnica, l’emozione, l’amore, la scelta morale, la fedeltà e finanche la memoria cadono in sospetto di malattia», annota l’autrice, che riporta la terapia all’umanità troppo umana di medico e paziente. «Capii che quel medico, nello smontarmi pezzo per pezzo, aveva portato alla luce vecchie piaghe cicatrizzate da compensi, come lui avrebbe detto e le aveva riaperte frugandoci dentro con bisturi e pinze e che non aveva saputo guarire… mi ricordai la fretta, quanta fretta di richiudere, ricucire quelle piaghe alla meno peggio… e in quella fretta spastica aveva dimenticato dentro qualche pinza».

“L’università di Rebibbia”, dove si annullano le distanze sociali
Nel 1980 Goliarda fu arrestata per aver rubato dei gioielli a un’amica. L’esperienza in carcere le ispirò “L’università di Rebibbia”, un tuffo nell’Italia del margine, ancora una volta, dove le distanze sociali si annullano, i tempi  di fuori si dissolvono, i dimenticati e i reietti diventano protagonisti. E dove l’amicizia tra donne si rivela la chiave per recuperare quell’autenticità, quella particella elementare agognata dall’autrice per tutta la vita. Emerge lì la figura di Roberta, detenuta politica, tossicodipendente, «biondina ossigenata dai lineamenti di buona borghesia», di cui la scrittrice quasi si invaghì dedicandole poi “Le certezze del dubbio”, romanzo vertigine che si addentra nei tormenti di ogni relazione. Un altro affresco storicamente determinato, ma universale. La potenza di Goliarda sta qui: in questo perenne richiamo all’“Ancestrale”, come si intitola la sua raccolta di poesie, così essenziali e asciutte da risultare il controcanto perfetto della sua prosa, così spiazzanti che Cesare Garboli faticò a riconoscerle e a giudicarle. «L’atto di nascita dell’esistenza letteraria di Goliarda Sapienza», la considera nell’introduzione il suo ultimo compagno, Angelo Pellegrino, che come altre opere rimase a lungo confinata all’interno di una cassapanca. «Ancestrali – commenta Pellegrino – non sono solo le cosiddette radici ma l’eternità della passione, con cui bisogna fare i conti. Contro il positivismo stentoreo marxista come fascista, le ragioni ancestrali – Goliarda avrebbe detto le emozioni primarie – sono alla radice dell’essere. A lei interessava questa radice perché era verità senza illusioni». Terapia Goliarda, terapia di verità.



Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, 2014, €15,00
Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Einaudi, 2015, €12,00
Goliarda Sapienza, Il filo di mezzogiorno, Baldini+Castoldi, 2015, €12,00
Goliarda Sapienza, L’Università di Rebibbia, Einaudi, 2016, €12,00
Goliarda Sapienza, Le certezze del dubbio, Einaudi, 2013, €11,00
Goliarda Sapienza, Ancestrale, La Vita felice, €12,50