Baskin, il basket inclusivo insegnato a partire dalle scuole

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© Marco Scardillo

Che cos’è il Baskin? La risposta più corretta è: un territorio (abbastanza) nuovo nel quale lo sport incontra il sociale, gli stringe la mano e decide di, letteralmente, portarlo in campo con lui, creando così un team inedito.

Il nome si chiarisce quando scopriamo che è la sintesi di “basket” e “integrazione”, dunque unbasket inclusivo”, un’attività sportiva modellata sul basket, nella quale le squadre sono composte da atleti normodotati e atleti con disabilità, siano queste di carattere fisico sia mentale. Le due squadre si affrontano su un campo di basket tradizionale, modificato aggiungendo alle due classiche aree con canestri, collocate sui lati lunghi del rettangolo di gioco, due aree più piccole – dette aree laterali – situate alla metà del terreno, ciascuna con due canestri di diversa altezza, così che i canestri sul campo sono in totale 6. Non mi soffermo sui dettagli del regolamento, ma c’è un dato fondamentale per cogliere l’essenza di questo sport: il campo e le dinamiche del gioco sono adattate in funzione di una squadra nella quale ciascun atleta ha un ruolo e una connessa modalità di gioco in rapporto alle proprie caratteristiche e abilità/disabilità fisiche e motorie, che le regole e la composizione stessa della squadra gli permettono di sfruttare e valorizzare in modo adeguato.

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Il baskin è nato a Cremona nel 2003 nell’ambiente scolastico grazie all’intuizione dell’ingegnere Antonio Bodini, padre di cinque figli tra i quali una ragazza disabile, e dell’insegnante di educazione fisica Fausto Capellini. Lo spirito è quello di una pratica sportiva nella quale i giocatori formino una squadra nel segno dell’inclusività a 360°, dove quel che conta è la volontà di giocare tutti assieme, indipendentemente dalle doti fisiche e psichiche di ciascuno, dall’età e dal sesso, tant’è vero che, nella sua volontà di abbattere muri, barriere, regolamenti troppo stretti e confini codificati, il baskin accoglie in squadra persone di diversa età, maschi e femmine, professionisti e dilettanti, così come atleti dediti ad altre discipline; un altro punto qualificante è che questo sport aiuta e favorisce l’inclusione senza pietismi o scorciatoie, grazie al fatto che permette agli atleti normodotati di giocare ed esprimersi pienamente, senza doversi frenare o risparmiare, e, allo stesso modo, consente agli atleti con disabilità di fare lo stesso, dando il proprio contributo al gioco e al risultato finale.

Non a caso – perché l’albero si riconosce dai frutti – la diffusione del baskin è stata velocissima, dalla costituzione dell’Associazione Baskin in onlus (2006) al riconoscimento della sua importanza da parte del MIUR, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, tanto che oggi sono un’ottantina le società sportive che lo praticano, non solo in Italia.

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© Marco Scardillo

Una di queste realtà, nella città di Milano, è la squadra del Sanga, l’unica squadra femminile milanese nella massima serie (milita infatti nel campionato di A2), nata come società di pallacanestro femminile, ma che si occupa anche di basket maschile, minibasket, microbasket e, appunto, di baskin.

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La Sanga è il club protagonista di un’iniziativa intelligente, che mira a promuovere l’interesse attorno al baskin e a farne conoscere sempre di più la realtà e il suo significato più profondo: si tratta della realizzazione del calendario fotografico “Calendario 2019 Sanga Baskin Team” (per chi fosse interessato a sostenere questa iniziativa, è tuttora acquistabile a questo link), un progetto di Marco Scardillo, fotografo per passione che, frequentando la società e l’ambiente del campo, entrando in contatto e in amicizia con gli atleti e le persone che stanno loro accanto e ne condividono impegno ed esperienze, ha saputo utilizzare la sua macchina fotografica per darci una sorta di diario, da dentro, di cosa significhi fare baskin. Potete vedere due sue foto a corredo di questo pezzo: sono scatti senza fronzoli, accurati, ma diretti, in un bianco e nero elegante, credo per evitare il sentimentalismo e qualunque caduta nella retorica, di cui né questo sport né questi ragazzi hanno bisogno: i loro volti, del resto, lo dicono chiaramente e, attraverso queste foto corali, sembra di essere anche noi lì, sugli spalti e ai bordi del campo.