Dovrà pur succedere prima o dopo, da qualche parte, in qualche modo, che qualcuno scriva qualcosa a proposito delle maestre e dei maestri della scuola pubblica italiana.
Dovrà pur succedere che qualcuno (che non siano loro stessi) riesca a scrivere di come siano ormai rimasti soli, isolati, quasi assediati, a difesa di un’idea-fortino ormai diroccata, con dentro tutte quelle cose belle per cui un tempo credevamo valesse la pena vivere e persino morire.
Dovrà pur succedere che si riesca a far capire loro che sappiamo cosa stanno facendo e che gli si riesca a far capire che se non lo diciamo abbastanza è solo perché una gratitudine così profonda può essere solo o non detta o non detta abbastanza.
Che è poi quello che fa (o meglio, non fa) Nina con la sua maestra delle materne Anna ogni volta che la incrocia per strada, ora che è passata alle elementari ed è diventata grande: semplicemente, non la saluta.
Ebbene, vorrei raccontare ad Anna una piccola storia che riguarda il papà di Nina, che sarei poi io, che oggi ha 48 anni e che non più tardi di settimana scorsa s’è praticamente messo a frignare come un poppante in mezzo alla strada, ricordando la maestra sua del tempo che fu, la mitica Renza.
Renza era un donnone forte, imponente, giunonico direi oggi, forte del mio passaggio al Classico. Io ero un bambino molto timido, introverso. Perché insomma, non è che mi amassi proprio tantissimo. Ho fatto fatica a venir su, mi sentivo sempre il bambino sbagliato nel posto sbagliato. Credo che Renza di questa cosa se ne accorse e allora sai che fece? mi trattò come un fiore. Come un fiore mi trattò, mannaggia la miseria. E come un fiore mi fece pian piano e miracolosamente sentire, tanto che mia madre – che pure avrebbe dovuto avere un certo interesse a prendersi il merito di non aver tirato su un serial killer – mi ha sempre detto: “A te ti ha aiutato tantissimo la Renza”.
E in effetti sì, ho sempre pensato di essere stato un po’ il cocco della maestra, ma la verità è che non lo ero e me ne sono accorto, abbastanza all’improvviso, qualche giorno fa, dopo aver vissuto e rivissuto la vicenda anche lato genitore. Non ero io ad essere il cocco della maestra, era Renza ad essere semplicemente una brava maestra e quello che sa fare una brava maestra è precisamente questo: far sentire ogni singolo bambino il cocco della maestra. Così fece Renza con noi (con noi, non solo con me) ed è questo che vorrei far capire ad Anna, la maestra di Nina, anche se sicuramente lo sa già da sé: ci ho messo quasi 40 anni a scoprire cosa è stata e cosa ha fatto per me la mia maestra, anche se probabilmente lo sapevo già prima. Non so quando Nina scoprirà quello che sei stata tu per lei, ma secondo me lo sa già. E’ solo che son cose che stanno troppo in profondità, dove è tra l’altro giusto che stiano, essendo che le cose davvero importanti tendono ad andare a posizionarsi lì, vai a sapere perché. E quando una cosa va troppo in profondità non è che la rimuoviamo, anzi, però non è più nemmeno così facile da andare ad acchiappare e riportare in superficie. Ecco, Anna, io nel non saluto di Nina vedo questo. Però spero che il saluto che ogni volta ti faccio io al posto suo, quel “Ciao, maestra!” scandito quasi con marziale rigore, ti faccia capire cosa hai fatto tu per Nina e cosa hai fatto per noi.
Perché io poche cose so ma questa sì, ce l’ho ben chiara: quasi ogni mattina, da quasi 8 anni, vivo l’incanto di fermarmi fuori da scuola e vedere di spalle le mie figlie che entran. Quasi ogni mattina, da quasi 8 anni, noi genitori consegniamo quello che abbiamo di più prezioso al mondo a un manipolo di sconosciuti (corpo docente o non che sia) e ce ne andiamo via fino alle 16.30 o giù di lì. E ogni volta, mentre contemplo con una meraviglia a cui non riuscirò mai ad abituarmi, la totale fiducia con cui loro si affidano a voi, la totale fiducia con cui ve le affidiamo e la totale dedizione con cui le accogliete, non posso che incamerare una gratitudine pressoché infinita per chi fa il vostro lavoro, specie in questi tempi cattivi e bastardi. Che è un qualcosa che va persino un passo oltre la gratitudine. Perché è davvero quel qualcosa che – nonostante tutto – resiste e ci tiene insieme: quella consapevolezza ormai sepolta ma fieramente sedimentata nel cuore di tanti, che essere una comunità è ancora e sarà sempre l’unica salvezza. E che una comunità vera i bambini li accoglie tutti e tutti li fa sentire speciali, colorati, belli e profumati come fiori.
E insomma, dovrà pur succedere prima o dopo, da qualche parte, in qualche modo, che qualcuno scriva qualcosa per ringraziare le maestre e i maestri della scuola pubblica italiana e, magari, li candiderà al nobel per la pace, la cura, la premura, la fatica, il sacrificio, la tigna, la forza che riescono a mettere ogni fottuto giorno nel loro lavoro e l’amore che riescono a dare ogni giorno a tutti i nostri figli, nessuno escluso.
Dovrà pur succedere, prima o dopo.
O magari anche adesso.
Ps
Immagino che alcuni saranno tentati di reagire a questo post lamentando una qualche esperienza personale diversa. Ecco, su questo lasciatemi dire una cosa. Quello che ho scritto qui è frutto di ormai oltre 30 di esposizione diretta o indiretta a diverse scuole pubbliche milanesi e alle donne e agli uomini che ci lavorano e ci hanno lavorato dentro. Per cui, scusate, ma se è vero che una rondine non fa primavera, sicuramente non potrà mai fare inverno. Spero ne converrete.