Dodici ore, schiena curva nei campi, sotto il sole. Poi torni a casa, dai tuoi figli, spesso una povera baracca. Hai solo voglia di dormire e invece bisogna preparare da mangiare, pulire, lavare. Ingoi le lacrime per questa vita che non hai mai desiderato fare e per non essere in grado di cambiare questa condizione. Non basta un lavoro disumano. Se provi a protestare, non lavori più. È uno stillicidio di parole brutali vomitate dai “capi”, dai “caporali”, quando va bene. Quando va male, possono arrivare le botte, o ancora peggio. Le tue colleghe sanno, vedono, subiscono lo stesso trattamento, ma non possono nulla, come te. Hanno tutte bisogno di lavorare e ribellarsi non serve. Queste vite al limite sono al centro di “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (Settenove, 2018) che sarà presentato oggi alle 16 a Bruxelles, al Parlamento Europeo, nell’ambito dell’evento intitolato “Caporalato di genere. Molestie sessuali e sfruttamento nell’Unione Europea e nel Mediterraneo”, organizzato dall’europarlamentare Elena Gentile, su proposta del CREIS (Centro Ricerca Europea per l’Innovazione Sostenibile). L’appuntamento intende aprire una finestra su questo tema poco conosciuto: il libro della giornalista Stefania Prandi che racconta la sua inchiesta internazionale sullo sfruttamento delle braccianti agricole in Italia, Spagna e Marocco.
Più di due anni impiegati a intervistare circa un centinaio tra lavoratrici, sindacalisti e volontari di associazioni. A setacciare, incontrare, fotografare con attenzione e discrezione. La Prandi, che ha realizzato reportage in Italia, Europa, Africa e Sudamerica, ha deciso di lavorare a quest’inchiesta partendo dai tre paesi affacciati sul Mediterraneo, tra i maggior esportatori di ortaggi e frutta del mondo. Qui, infatti, si consuma una delle più grandi ingiustizie degli ultimi decenni, per di più taciuta e, dunque, anche poco conosciuta. Qui ha trovato Kalima, Aicha, Elena, Adba, Hawa, Rachida, Tulipa, Petra, tutti nomi di fantasia per celare la vera identità di chi teme per la propria vita. Solo la morte di Paola Clemente, in Puglia, il 13 luglio del 2015, aveva acceso un lumicino (il regista Pippo Mezzapesa ha girato un corto dal titolo “La Giornata”, ndr). Le donne vengono sfruttate nelle campagne, non solo con condizioni lavorative estenuanti e paghe inferiori, ma subiscono molestie sessuali, ricatti, violenze verbali, fisiche e stupri. Da queste parti si parla solo dell’emergenza del caporalato. E invece c’è anche la violenza sul lavoro, fenomeno certamente diffuso a vari livelli, e che a certe condizioni e in certi territori raggiunge la sua apoteosi. Una recente statistica dell’Istat ci dice che arrivano a quota 1 milione 403 mila donne fra i 15 e i 65 anni hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro nel corso della loro vita lavorativa. Rappresentano quasi il 9 per cento (8,9%) delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. Erano l’8,5% nel 2008-2009. Nei tre anni precedenti all’indagine, ovvero fra il 2013 e il 2016, hanno subito questi episodi oltre 425 mila donne (il 2,7%). Erano il 2,4% nel 2008-2009.
Come è nata l’idea di quest’inchiesta?
«Da tempo mi occupo di questioni di genere. All’inizio volevo fare soltanto un lavoro fotografico sulle braccianti rumene di Vittoria, in Sicilia. Una volta lì, mi sono accorta che la situazione era molto più complessa di quanto pensassi e così ho deciso di approfondire e di proseguire».
Che cosa ha scoperto?
«Il tema della violenza sul posto di lavoro è sconosciuto ai più. Parliamo di molestie verbali, fisiche e sessuali, di ricatti sessuali, di stupri. Purtroppo non ci sono numeri nei diversi settori, c’è solo una statistica generale, perché di questo tema non si parla, le denunce sono poche. Le donne, pur avendo consapevolezza dei loro diritti, sanno di non avere tutele adeguate. Le denunce cadono nel vuoto perché queste donne devono provare quanto dicono, e spesso non si crede loro, quanto piuttosto si preferisce credere ai capi. Spesso parliamo di situazioni che avvengono in territori dove vige l’illegalità».
Perché se ne parla poco, secondo lei?
«Il fenomeno è trasversale, pervasivo. Manca un’adeguata tutela dal punto di vista di attuazione delle leggi, così come manca la formazione specifica delle forze dell’ordine, dei sindacati, delle associazioni anche perché non è percepito come un problema serio, vitale, urgente. Viene confuso con il caporalato o la tratta. Si tratta di situazioni completamente differenti. C’è un vero e proprio misunderstanding del problema. È una questione culturale. In America, dove ho venduto il lavoro fotografico sulla Sicilia e dove ho vinto un grant, The Pollination Project (https://thepollinationproject.org), se ne parla da 40 anni, molto prima del #Metoo. In Italia la violenza sul lavoro non è percepita ancora come un tema realmente “forte” giornalisticamente parlando, perché di fatto l’agenda giornalistica è ancora sotto un monopolio maschile. Se non se ne parla, non si riesce a scoperchiare il problema. Se pensiamo a come è stato trattato da noi il caso Weinstein oppure il caso Brizzi, troviamo molte similitudini nei meccanismi della violenza sul lavoro, eppure ai media interessa solo se si tratta di persone famose, non di quelle comuni. L’inchiesta è stata pubblicata in Germania, in Svizzera e in Spagna dove le braccianti sono scese in piazza e c’è un processo in corso. Prima di aver parlato con me, qualcuna aveva già denunciato, altre lo hanno fatto dopo».
Le pagine del libro raccontano anche la vita quotidiana di queste donne, la sopravvivenza, la resistenza alla violenza, il coraggio delle denunce…
«La sfida per me è stata quella di raccontare queste storie senza vittimizzare le donne. Inoltre è stato necessario che si fidassero di me, con il rischio costante che se qualcuno dei capi o dei supervisori le avesse viste parlare con una giornalista, avrebbero potuto subire ritorsioni. Ma la sfida era anche riuscire a trovare chi pubblicasse questa inchiesta. Per fortuna, se il libro è già alla prima ristampa, dopo soli quattro mesi dalla prima pubblicazione, considerando anche che la casa editrice con cui ho pubblicato è piccola, significa che c’è un interesse e solo questo può far nascere maggiore sensibilità».
È stata una sfida difficile: ha avuto paura?
«Ho avuto delle difficoltà, certamente. Un primo ostacolo viene dalla mancanza di consapevolezza e poi dall’omertà diffusa. In Spagna due proprietari delle aziende agricole hanno minacciato di bloccare l’auto, volevano chiamare la polizia, la Guardia Civil. Un supervisore ha minacciato me, una lavoratrice e la collega Pascale Mueller con cui stavo lavorando di morte per tre giorni. Quando l’inchiesta è uscita c’è stata anche una minaccia di denuncia dalle associazioni di categoria di Huelva e da alcuni sindacati. Nella provincia della Huelva, in Andalusia, parlare di questo sfruttamento delle donne nella raccolta di fragole e frutti rossi significa, secondo la gente del posto, danneggiare un intero territorio che si regge su quella economia. Ovunque andassi, comunque, anche in alcune zone italiane, mi avevano sempre consigliato di lasciar perdere, di non proseguire».