“Papà voglio giocare a calcio!” – mi disse sorridendo.
Mentre mi guardava aveva il faccino tipico di chi ha in mente una marachella, uno scherzetto, forse aveva capito già che stava “osando”. Erano giorni che le chiedevo quale sport volesse fare, aveva quasi 9 anni e di fare nuoto non se ne parlava, di continuare a fare ginnastica artistica non ne aveva voglia, ed ora, all’improvviso, mi parlava di calcio decisa e sicura.
– Ma non conosco nessuna squadra femminile, fino ad ieri parlavamo di nuoto……. Vuoi fare pallanuoto? Vuoi provare? – le risposi di getto; poi la sua dolce insistenza sfociò in una soluzione ottimale: la squadra dell’oratorio vicino a casa. Parlai con il Mister che fu contentissimo di averla in squadra anche perché avrebbe fatto coppia con un’altra bambina che già giocava con loro dall’inizio dell’anno. Il primo allenamento fu memorabile per l’entusiasmo e la passione che mia figlia trasmetteva ad ogni passo. Mi commossi nel vederla così felice e pensai quanto fossi fortunato ad averla soddisfatta semplicemente acconsentendo al suo desiderio.
Il portiere era probabilmente scritto nel suo DNA e non ci volle molto perché tutti lo capissero. Il Mister per primo la volle in porta e, partita dopo partita, allenamento dopo allenamento, quella bambina divenne così celebre per le sue parate che i genitori delle squadre avversarie finivano sempre per tifare per lei, la bambina dagli occhi azzurri e i capelli biondi che “copriva” la porta con una passione che faceva sorridere di gioia. Fu quasi inevitabile assegnarle il premio come miglior portiere del campionato “rufina’s cup”; quello fu il primo grande traguardo accompagnato dagli applausi dei portieri avversari e le sincere congratulazioni di tutti i mister.
Mi chiesero di poterla schierare in un quadrangolare estivo con i maschietti e risposi che non ero io a decidere…… lei mi pregò di portarla, giocò così bene tutto il torneo che la coppa della vittoria la consegnarono a lei e lei se la portò a casa fiera. Da quel momento fino ad oggi le emozioni e le gioie si sono centuplicate: in pochi anni il passaggio dall’oratorio ad una squadra professionistica di serie A, la vittoria di tanti trofei come miglior portiere, la vittoria di partite prestigiose, di tornei nazionali, fino all’approdo in nazionale under 15, passando per la Danone cup e gli allenamenti al centro federale territoriale.
– Papà stò vivendo un sogno – mi disse sorridendo. Aveva indosso la maglietta rosa della nazionale e nel vederla con “quella” maglia cercai di mascherare la mia commozione fingendo un bruciore agli occhi e ringraziai mille volte quel suo sogno per aver benedetto la sua felicità di piccola donna.
Mia figlia, appunto è una donna, una femmina, un’xx per genetica. Non è un maschiaccio (parola orribile che ho spesso sentito per descrivere chi “ardisce” cimentarsi in sport che per cultura sono considerati solo per uomini), ne vuole esserlo. Non imita nessuno ma esprime se stessa. Fa il portiere di calcio. Dice che quello è lo sport della sua vita e siccome vedere felice la propria figlia è l’obiettivo, credo, di ogni papà, è diventato anche il mio. Nel senso che faccio di tutto per accontentarla e i sacrifici non sono pochi. Conciliare il lavoro per poterla accompagnare, mettere la benzina, chiedere i permessi al lavoro, comprare gli scarpini, i guanti…… insomma, sacrifici in tutti i sensi. Come se non bastasse la famosa squadra “di serieA” fa pagare una retta non indifferente che va a sommarsi a tutto il resto. Verrebbe da ridere quando poi si legge sui giornali che tale squadra di serie A ha deciso di puntare sul femminile……. Ma se non riesce nemmeno a gestire qualche decina di migliaio di euro per il settore giovanile tanto da farsi pagare l’annualità…….. ma su quali presupposti stiamo ragionando? Avrei capito la retta all’oratorio, ma quella della famosa squadra di serie A proprio non la capisco. Ma questi sono i miei sacricifi di padre, e non sono certamente l’unico che li fa.
Poi ci sono i suoi di sacrifici. Allenamenti il lunedi al centro federale, il martedi il mercoledi e il venerdi con la squadra, il sabato o la domenica la partita: la settimana è piena. Fino ad oggi ha sempre mediato bene tutta questa attività sportiva con la scuola, e la promessa di non portare nessuna insufficienza la rende e mi rende orgoglioso di lei. Non è la prima della classe, non è la prima nella sport, ma non è di questo che si nutrono i suoi sorrisi, bensì del fatto di impegnarsi con tenacia e arrivare ad aver dato sempre il massimo. Come tutte le ragazze della sua età e come tutti i ragazzi della sua età, mia figlia ha dei sogni: vuole che il calcio diventi il suo futuro, il suo lavoro, la sua passione, il suo scopo; e per questo suda, si impegna, piange, rinuncia, lotta.
Sono il papà di questa ragazza, e spetta a me spiegarle cosa l’aspetta. Il calcio femminile non è quello maschile, non ha la sua storia ne il bacino di sostenitori e il giro di affari. E’, però, un movimento in grande espansione perché i dati degli altri Paesi in cui il calcio femminile è sostenuto e fortemente sponsorizzato e che sono proprio per questo più avanti del nostro, in termini culturali e di marketing, lo dimostrano chiaramente. E’ quindi uno sport che rappresenta potenzialmente un grande affare e che potrebbe portare soprattutto tante soddisfazioni sportive al nostro Paese. Marcate e definite le differenze con il calcio maschile le assonanze sono addirittura più affascinanti: i movimenti delle ragazze sul campo sono più lenti e il gesto tecnico è portato meno all’esasperazione con il risultato che il gioco e le geometrie sono più gradevoli da vedere, si metabolizzano meglio perché la palla disegna schemi che si riescono ad intuire e a volte a prevedere, cosa che nel calcio maschile è subordinata alla velocità d’esecuzione. E’ un calcio più alla “Rivera” piuttosto che alla “Ronaldo”, un calcio anni ’80, è un calcio dove le figure in campo sono donne e non uomini. Detto questo è inutile discutere per ore e giorni, il calcio femminile ha due strade, o lo si aiuta a decollare oppure no. Si parla di volontà e di progetto per il movimento. Se si decide che non lo merita allora dovrò dire a mia figlia di divertirsi fino a che può, perché presto la vita “lavorativa” alla fine le chiederà il conto, salato, di questa sua passione Del suo innamoramento per un semplice gioco da dilettante resteranno i ricordi adolescenziali.
Mi dispiace figlia mia, il calcio non potrà essere il tuo lavoro. Se fossi costretto a dire questo significherà che il talento di mia figlia e quello di altre ragazze più brave di lei si fermerà necessariamente nel momento in cui, al posto degli scarpini, dovrà comprarsi le scarpe o mettere la benzina nella macchina per recarsi al lavoro: quel lavoro con cui comprare il pane, un lavoro diverso dal calcio.
Io non lo so se la strada giusta sia la FIGC piuttosto che la LND, credo invece che se ci si mette seduti davanti ad una tavolo con l’obiettivo di far partire il calcio femminile e portarlo ai livelli degli altri Paesi allora una soluzione, quella giusta, si trova di sicuro. Si potrebbe formare una lega femminile che viaggi in parallelo a quella maschile e che con quella maschile collabori per trovare sponsor e risorse che portino soldi ed interesse. Basta volerlo, e basta dirlo. Possiamo passare anni a discutere di pertinenze, di leggi del CONI o di altri articoli tipicamente conosciuti solo dagli addetti ai lavori……e se c’è una legge da cambiare per farle diventare professioniste basterà cambiarla, se l’interesse del pubblico lo richiederà, e soprattutto se lo si vorrà. E’ una strada, per percorrerla, però, prima bisogna imboccarla.
Chi comanda lo sport ha l’obiettivo di promuovere il calcio femminile? Se si, il percorso sapranno trovarlo loro e non sarò certo io a suggerirlo, ma se non hanno questo obiettivo allora non pretendano di vincere laddove gli altri crescono i talenti e li pagano per il “lavoro” che fanno, li tutelano con una regolare pensione, li incoraggiano a proseguire formando delle vere “atlete” esattamente in un cammino parallelo, seppur con le dovute differenze, a quello maschile.
Non sono certo io a dire che il calcio femminile ha il suo angolo di business, tra l’altro con un potenziale di crescita inimmaginabile. Se questo potenziale viene tramutato in soldi, in interesse, il calcio femminile esploderà e solo allora si potrà considerare l’ipotesi professionismo. Non ci siamo lontani, basta volerlo, basta crederci davvero e non fare finti proclami per chissà quale altra ragione corporativa. Come si può pretendere di sfornare campionesse di calcio se si parte oggi con l’idea che quello non potrà essere il loro “lavoro” futuro? Non si diventa campionesse lavorando la mattina in panetteria e poi chiedere un permesso per allenarsi il pomeriggio. Dispiace vedere tutte quelle ragazze che ogni giorno si allenano sui campi verdi, dispiace perchè la maggior parte di loro vuole avere un ruolo da protagonista in questa avventura. La quasi totalità delle ragazze con cui ho parlato vuole il futuro nel calcio, non vuole ricordi adolescenziali, vuole impegnarsi per raggiungere una meta: quella! Dispiace non poterle rassicurare. Purtroppo oggi non si può, eppure tutte sperano, si illudono, sperando che qualcosa cambi veramente. Non sanno che qualcun altro deciderà per loro, e non sarà facile seguire la logica o la strada ovvia. A mia figlia dico: sei donna, in questo Paese, oggi, il tuo sogno è figlio di un interesse minore, e non so se potrai realizzarlo. So solo che potrai lottare insieme alle tue compagne per farti valere come atleta e come donna, per rivendicare un diritto che non può essere negato soltanto perché siete tutte xx e non xy.