Nel paese dove è nata mia madre, il sindaco di oggi aveva un nonno comunista e una nonna democristiana. Lei andava a messa la domenica, lui comprava L’Unità. Lei, quando puliva in casa e doveva spostare il giornale, usava uno straccio per non toccarlo, lui non capiva perché avesse la convinzione che sarebbe finita all’inferno se lo avesse fatto. Il nipote, a distanza di decenni, è stato rieletto al secondo mandato con una lista civica.
Nei paesi italiani lo scontro duro in politica c’è sempre stato e non certo con i toni da Don Camillo e Peppone. C’erano familiari che non si salutavano per mesi dopo le elezioni, voti dati per parentela o perchè “è il compare”, funerali non celebrati in chiesa e immaginette sante nella borsa per andare a votare. Eppure sembrava esserci il sano confronto fra ideologie, lo scontro fra il bene e il male che stava da una parte o dall’altra a seconda da dove lo guardavi. Prima si nasceva democristiani e si moriva democristiani. O comunisti. Ora è tutto più liquido e i cambiamenti nel panorama dei partiti dagli anni ’90 ad oggi hanno reso il voto più “flessibile”. Eppure l’astio non è diminuito e il livello di conflittualità si è alzato, e di molto. Sui social, soprattutto.
Capita così di trovarsi al bar con quello che si vanta di quanti contatti ha cancellato su Facebook per i commenti a un suo post sugli immigrati. Capita chi è in difficoltà con il vicino di casa o con il parente perché online se ne sono dette di tutti i colori a proposito di vaccini. Capita chi ha perso amicizie di vecchia data perché di fronte alle posizioni sui matrimoni Lgbt ci si è schierati pro o contro il ministro Fontana. Un astio che va ben oltre il confronto politico. Un confronto politico che non esiste più. E’ diventata tifoseria da ultras (mi perdonino gli ultras se li uso come termine di paragone). Si fa a chi alza di più la voce, a chi ce l’ha più lungo (e non solo fra uomini). Con la massa di like che corre in soccorso di chi ha la stessa idea, per dimostrare che è la più forte, la più condivisa.
Astio da tifoserie rivali che si esaurisce in un click, in un post, in un tweet fatto con l’hashtag giusto. Perché se si è davvero indignati basta scrivere un bel pippone su Facebook e scegliere una fotografia ad effetto per avere l’impressione di aver fatto il proprio dovere, di aver reso omaggio alle proprie idee, di aver difeso i propri valori, di aver contribuito a costruire una società migliore. E di scendere in piazza a manifestare le proprie idee non se ne parla più.
Un bell’avviluppamento che ci siamo creati da soli e che, se i politici sono furbi (e molti di loro lo sono) sfruttano per portare il dibattito (dibattito?!) dove a loro interessa maggiormente. Un bell’escamotage per non parlare dei problemi veri, quelli che toccano il pensionato e la casalinga, il disoccupato e il neolaureato, la mamma single e l’imprenditrice, le partite iva e l’esercito delle badanti. E a perderci siamo solo noi. Tutti, nessuno escluso.
Dal giorno dopo le elezioni mi sono chiesta quale fosse la via del dialogo, di un confronto anche duro ma che fosse nel merito, di un dibattito che portasse a fare cose buone per questo Paese e per gli italiani. La prima risposta è stata che certo non si riapre a un clima costruttivo cancellando da Facebook o evitando di incontrare chi ha un’idea diversa dalla nostra, perché è necessario conoscersi e ascoltarsi per confrontarsi. La seconda risposta è che la politica non si può fare sui social (anche se poi, non neghiamolo, l’uso dei social porta voti). La terza è che bisogna lavorare, ognuno nel suo, sempre di più sulle competenze, per poter affrontare un dibattito su fatti, dati, stime, studi, realtà concrete, conoscenze storiche, senso delle istituzioni e così via. La quarta risposta, che mi sono data, è che è finito il tempo di demandare ad altri. Conosco tante persone competenti, capaci, intelligenti e formate che potrebbero dare un contributo concreto alla ricostruzione della politica in Italia. Persone che finora si sono dedicate ad altro: al loro lavoro, alla loro famiglia, alle loro passioni. E’ arrivato il momento, e lo si respira nell’aria, di “fare qualcosa”, impegnarsi in prima persona che sia a fare la rappresentante di classe (che sembra una cavolata, ma a scuola si danno dei messaggi potentissimi a famiglie, studenti e corpo insegnanti) o a lavorare per le prossime elezioni europee.
Mia madre ha ragione quando dice che fra il nonno e la nonna del suo sindaco il matrimonio è durato decenni nonostante le diversità politiche fra i due. Allora si riusciva ad andare oltre. Certo è che quel clima ce lo sogniamo: mia madre fece la rappresentante di lista per la Dc, il nonno del sindaco era ai seggi per il Pc. Chiuse le urne le si avvicinò e le disse: “Signorina, non se la prenda. Questa volta vinciamo noi per 300 voti*. Li ha contati mio figlio che è stato qui fuori dall’apertura dei seggi”. E oggi mia mamma lo ricorda ancora e mi dice: “Mi ha chiamato signorina, era un segno di rispetto. E mi ha avvisato perché ero lì per la prima volta e non voleva davvero che rimanessi delusa”. Mia mamma nella politica ci crede ancora. E il sindaco del suo paese, nipote di cotanto nonno, anche.
*Ps: Vinse il Pc per 280 voti.