Non vorrei sembrare troppo scollegata dalla realtà, in questi giorni in cui lo scandalo Cambridge Analytics sta affondando Facebook e dissotterra parecchi lati oscuri del Web. Ma giovedì scorso ho avuto la fortuna di partecipare a una tavola rotonda divertente, dedicata al gender gap nella rivoluzione digitale, che mi ha fatto parecchio riflettere. Divertente perché organizzata dai trentenni per altri trentenni, e questa cosa di per sé è abbastanza per rendere la conversazione frizzante e portare sul tavolo punti di vista inediti. L’hanno organizzata i Global Shapers di Milano, un gruppo di giovani volontari che vi suggerisco di scoprire: appassionati della città, organizzano molte cose per renderla migliore. Ebbene, nel bel mezzo della discussione su come convincere più bambine ad appassionarsi alle materie scientifiche, salta su un ragazzo del pubblico e ci lascia tutti a bocca aperta: «Io lo dico sempre, a mia sorella più piccola, che il futuro è di chi mastica l’informatica e le nuove scienze. Il punto è: chi insegna a mia madre a farle lo stesso discorso? Più che le iniziative per convincere le bambine a guardare alle Stem, ci vorrebbero iniziative per insegnare alle madri di quelle bambine».
Un pensiero così semplice, e così rivoluzionario insieme. E mentre noi tutti si rifletteva su quanto non si è fatto abbastanza su questo fronte, qualcun altro ha rincarato la dose e ha gettato un altro sasso nello stagno. Un sasso che ha sgretolato in un solo istante tutte le mie certezze di madre pseudo-evoluta di figlia novenne nell’era dei social: «Pe non parlare – ha detto questo grillo parante – di quei pochi corsi che ci sono e che si rivolgono ai genitori: tutti incentrati sul cyberbullismo e sui pericoli della rete. Certo, i pericoli ci sono, ma il 95% di internet non è costituito da rischi, ma dalle opportunità».
Eccolo qui, il punto. Chi glielo insegna, a questi ragazzi, tutto quello che l’era digitale offre loro di buono? Tutti concentrati come siamo a mettere in guardia bambine e bambini dagli stalker digitali, dal bullismo dei messaggi offensivi, dalle foto porno mandate via whatsapp come ricatto, alzino le mani quanti di noi hanno cominciato un discorso sulla rete che dicesse «guarda qui che meraviglie ci puoi fare, col tuo computer!». Mi lamento con mia figlia perché non vuole venire con me al Museo della scienza e della tecnica, perché non si appassiona all’avventura dell’uomo nello spazio, perché non vuole partecipare a un corso base di coding per bambini. E poi mi rendo conto che la prima parola che le dico non appena la vedo prendere in mano il tablet è «attenta»: a quale sito scegli di navigare, a quale app scarichi, a quali dati personali comunichi ai signori del web. Mai che io le dica: ehi, hai visto questo programma per creare nuove ricette? Questa app con il dietro-le-quinte del tuo telefilm preferito? Questo gioco per testare la tua conoscenza della storia degli egizi che ti piacciono tanto?
Hai ragione, ragazzo trentenne del pubblico. I corsi li dobbiamo fare ai genitori e glieli dobbiamo fare giusti. Meno paura, più empowerment. Insegnatecelo voi trentenni, come si fa. Siete nativi digitali e al tempo stesso siete sopravvissuti alla Rete. Se organizzate un corso a Milano, promesso, mi iscrivo.