Antonella ha 23 anni, la voce calma, i movimenti lenti e un sorriso molto dolce. Si è laureata da meno di un anno, lavora da alcuni mesi e vive già da sola. “Ma non l’ho scelto io. Avrei aspettato ad avere un po’ più di certezze lavorative… ma mi hanno cacciata di casa”, precisa. La famiglia di Antonella è una famiglia come tante, apparentemente. “L’importante per loro è come siamo fuori, come ci vedono, quello che dicono di noi. Poi come siamo dentro casa, le urla, le botte, quello non conta. Hanno sempre fatto finta di niente”.
‘Loro’ sono i genitori di Antonella e suo fratello, di qualche anno più grande. Lei si racconta come un’estranea in casa, si è sempre sentita sola e diversa e ha subìto la violenza di tutti e tre: padre, fratello e madre. “Era un tutti contro tutti. Mio fratello lancia cose e picchia, mia madre e mio padre picchiano. Tra loro e contro di me. A volte è successo che lo facessero tutti e tre insieme”.
Ascoltando il suo racconto, quello che nasce, prima del resto, è l’incredulità. Poi, subito dopo, viene da chiedersi il perché. Come se la violenza potesse averne uno. “Il mio primo ricordo è di quando avevo circa 8 anni, una volta mia madre mi diede un morso su una mano, non ricordo perché. Ricordo lei che cercava di coprire il livido col correttore il giorno dopo, perché non si doveva vedere, fuori”. Quello che è importante comprendere, in episodi di violenza contro le donne, è che non c’è un perché, non ci può essere una spiegazione che rischia poi di suonare anche come una sottile giustificazione. Il perché non conta. Per Antonella, per esempio, l’arrivo dell’adolescenza ha segnato l’esplosione del conflitto e il moltiplicarsi di episodi. Ma la violenza, nella sua famiglia, c’era da sempre. E da sempre era una modalità di interazione. Poi, le scuse possono essere le più disparate, per esempio i ragazzi. “Io da ragazzina e da adolescente non dovevo avere contatti col mondo maschile – racconta – di nessun tipo. Ero stata una bambina tranquilla, sempre zitta, non avevo mai dato problemi. Per loro dovevo continuare a essere così, tutta la vita. Quando mio padre, avevo 12 anni, ha scoperto degli sms con un ragazzino, mi ha picchiato con l’asciugamano bagnato della doccia”.
Di lì in poi le liti sono state sempre più frequenti, Antonella non accettava il ruolo che la sua famiglia, fratello compreso, le voleva dare. A 16 anni incontra un ragazzo, si innamorano, a distanza di 7 anni sono ancora insieme. Ma quando viveva con i suoi, lui non poteva andare a casa sua, lei non poteva uscire. I divieti “erano irrazionali e illogici e valevano solo per me, mai per mio fratello. Io mi ribellavo ma ero confusa e disorientata”. Anche perché quella doppia vita, dentro casa e fuori casa, era davvero difficile da comprendere: “Noi eravamo quelli normali, a sentire loro. Le altre famiglie erano sfortunate, magari perché si separavano. A volte mia madre tornava e mi raccontava di situazioni ‘difficili’, in cui magari il marito aveva alzato le mani sulla moglie, e me ne parlava con dispiacere. Io non ci potevo credere, non riuscivo a capire. Per me, alla fine, quella che vivevo io era la normalità, ma una normalità di cui mi vergognavo, non volevo che nessuno sapesse come vivevo”.
Finché qualcuno ha notato i segni sul corpo e non ha lasciato correre: “La mamma del mio ragazzo mi ha fatto molte domande un giorno che ha visto che non riuscivo a camminare, perché mio padre mi aveva colpito sulla gamba. Io alla fine qualcosa le ho raccontato, lei mi ha detto che mi avrebbe fatto parlare con una persona fidata, lontana da casa e dalle persone che conoscevano me e la mia famiglia. Avevo troppa paura che si sapesse…”. Così Antonella ha il suo primo contatto con un centro antiviolenza, dove inizia a capire che nome dare a ciò che viveva dentro le quattro mura di casa. Il percorso di presa di consapevolezza è durato diversi anni, nel corso dei quali ci sono stati vari episodi violenti che ha subito.
Uno di questi ha rappresentato una svolta importante: “Una volta, dopo essere stata picchiata da mio padre, sono andata in ospedale. Al centro antiviolenza mi avevano detto di farlo. Mi hanno fatta entrare subito, mi hanno fatto molte domande. Io ho raccontato. Ma quando mi hanno detto che mi avrebbero contatta i carabinieri mi è preso il panico”. In quell’occasione Antonella, oltre ai lividi su gambe e braccia, è uscita dall’ospedale con un collare e un braccio fasciato. “Sono anche stata dai carabinieri due giorni dopo, ma non ho voluto firmare la denuncia. Avevo paura, mi sentivo sola, mi sembrava una cosa più grande di me”. Ma quello che ricorda Antonella, di quella notte, è l’espressione incredula del carabiniere e dei medici: “In quei momenti li ho adorati. Ho capito vedendo le loro facce che quello che succedeva in casa mia non era poi così normale, che c’era un altro modo di vivere”. Parlare con degli estranei, ascoltare le loro domande, avere a che fare con carabinieri e medici è stato “sconvolgente” per Antonella: “E’ come se in quel momento la mia storia fosse ‘venuta al mondo’ per la prima volta”.
Da quella ‘prima volta’ ci sono voluti altri due anni perché Antonella riuscisse, con l’aiuto del Centro antiviolenza, della psicologa, del counseling, dell’assistente sociale, del suo ragazzo (“mi ha sempre aiutata ed è sempre stato pronto a sostenermi”), a cambiare il corso di quella vita “che fino a poco tempo fa non pensavo valesse la pena vivere”. Ci sono stati ancora altri episodi, l’ultimo dei quali ha portato Antonella a trovarsi una casa per conto suo dopo essere stata cacciata dal padre (“Ma lo ha fatto perché sennò chissà come andava a finire”, le ha detto sua madre, giustificandolo). Quello che è cambiato in Antonella, da quella prima volta, è la consapevolezza di sé e del suo valore, e il fatto che ha smesso di vergognarsi, come se quella vita che non aveva scelto e che subiva fosse stata colpa sua. “Mi sono laureata, è stata la mia soddisfazione più grande, la parte migliore di me. Mi fa sentire orgogliosa e fiera. E’ stata dura, ho dovuto saltare sessioni intere a volte perché la situazione a casa era insostenibile. Ma c’è stato qualcosa dentro di me che era più forte del dolore, anche nei momenti peggiori… Sono riuscita a laurearmi, a prendere la patente, a trovare un lavoro, ho anche fatto un bellissimo viaggio. Ora ho anche un posto tutto mio dove mi sento al sicuro, dove non ho paura di tornare la sera. E dove nessuno urla ogni mattina, quando mi sveglio”.
Antonella in questo momento non vuole avere rapporti con suo padre e suo fratello, ne ha di saltuari con sua madre. “Mi manca un pezzo, certo. Mi manca sapere come può essere l’amore totale di un genitore per un figlio. Mi piace ascoltare quelle persone che dicono che i loro figli potranno sempre contare sul loro amore, qualsiasi cosa facciano”, dice. Ma per ora va bene così. Il percorso di recupero di sé prosegue, certo, ma su una strada che appare meno ripida. “Non è facile, non è stato facile. Ma ora non penso più che la vita che mi è toccata sia un castigo. Stanno arrivando tante soddisfazioni che rendono quest’anno degno di essere vissuto. E’ come se lo meritassi, come se le cose fossero più facili, mi sento più forte e oggi ho degli adulti di riferimento di cui mi posso fidare”, afferma sorridendo. La sua storia non la spaventa più: “E’ la mia vita, questa sono io. In più, può servire come deterrente: altri padri, altre madri, magari, capiranno il dolore che possono provocare nei loro figli”, dice. E altre donne potranno capire che la strada per rinascere, seppur difficoltosa, esiste.
“Mi piace raccontare la mia storia. Ora che non mi vergogno più della vita che ho fatto, mi piace raccontarla a chi sa ascoltare. Perché vedere il loro sguardo incredulo mi fa capire che ci sono persone che quello che è stato fatto a me lo trovano inconcepibile. Non lo farebbero mai a nessuno, non lo farebbero mai alla loro figlia”.
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