Cara Alley,
Mentre qualche ora fa viaggiavo verso la meta di un percorso durato più di tre anni, fuori dal finestrino, insieme ai campi e alle stazioni, scorrevano pure i ricordi. Il concorso di accesso al Tfa, con il pancione che cresceva di prova in prova. L’ultimo orale, quello di latino, a 41 settimane di gravidanza, e due ore più tardi la corsa in ospedale con le acque rotte e il travaglio dal quale è venuto al mondo Elio, il mio bambino paziente.
Poi sono arrivate le giornate divise tra poppate e corsi, tra i pianti suoi e i miei, il latte tirato prima di correre all’università e quello dato il sabato nella pausa pranzo, quando Sergio mi portava il piccolino direttamente in facoltà e io lo allattavo in corridoio sotto gli sguardi di docenti e studenti, gli esami preparati con lui sempre in braccio e dati al ritmo di uno a settimana, il tirocinio, la tesi, l’abilitazione, tutto come una funambola stordita dalla stanchezza, sempre sul punto di precipitare giù. E subito dopo, un concorso irrazionale e grottesco, che sembrava concepito non con l’intento di selezionarci, noi che già avevamo superato una selezione durissima, ma di umiliarci.
Io che mi dividevo tra una media a Ponte di Nona e un professionale a Centocelle, il bambino che cresceva e i manuali di pedagogia, una capriola continua tra le mattine in classe e le notti insonni, fino a uno scritto in cui il software mi si chiude a dispetto e un orale durante il quale una commissaria, mentre le spiego come fare didattica della storia con i fumetti, mi dice “Ma chi glielo fa fare? La scuola è brutta, non si faccia illusioni”. Quante volte ho pensato di non farcela e anche oggi che mi guardo indietro mi sembra incredibile che sono stata proprio io.
E allora sento di dover dire due parole. La prima è “grazie”. Grazie a chi è stato sveglio la notte al posto mio, a chi si è caricato sulle spalle mille faccende per lasciarmi il tempo per studiare, a chi si è catapultato da Napoli a Roma ogni volta che l’ho chiesto, a chi ha scambiato con me lungo il filo di un telefono frustrazioni, speranze, paure, a chi nei primi due anni della sua vita ha amato una mamma affaticata e sempre con la testa nei libri. E poi l’altra parola è “brava”. Brava, Assia. Perché non era scontato arrivare qui e arrivarci viva e intera, anzi più viva e intera che mai. Tempo fa qualcuno mi diceva che sono forte e forse non era vero. Oggi me lo dico io. Sono forte, sono tosta. Brava, Assia.
(Infine un grande in bocca al lupo a quante e quanti hanno condiviso con me questo stesso percorso, a tratti o per intero, e sono ancora in attesa del ruolo. Non ci è stato risparmiato nulla, ma teniamo duro, siamo forti, entreremo tutte/i e non sarà fra molto)
Assia Petricelli
Assia Petricelli è nata a Napoli e vive a Roma. Laureata in Lettere con una tesi in Storia del cinema su antifascismo e Resistenza, è sceneggiatrice, documentarista e insegnante. Come autrice ha realizzato documentari storici e progetti audiovisivi di edutainment (settore dell’editoria multimediale che produce opere che permettono di apprendere divertendosi), in collaborazione con Rai, Ministero dei beni e delle attività culturali e altri soggetti pubblici e privati, occupandosi in particolare di storia contemporanea, arte e archeologia, questioni di genere. Appassionata di ogni forma di narrazione per immagini, ha iniziato a scrivere sceneggiature di fumetti per riviste cartacee e per il web. Cattive ragazze, la sua prima graphic novel, disegnata da Sergio Riccardi, ha vinto il Premio Andersen nel 2014.