Qualche giorno fa mi ferma per strada l’ennesima signora: “Ma le ha adottate? Uh, che bella cosa. Ma che bravi che siete stati!”. Sorriso di circostanza, e ci riprovo ancora una volta: “Signora, quelle brave sono le mie figlie. Hanno fatto loro la fatica più grande”. Ma lei imperterrita: “Sì, ma siete stati bravi, avete fatto proprio una bella cosa”.
Lo so che la signora di turno è mossa da buone intenzioni, me lo ripeto ogni volta come un mantra, ed è per questo che continuo a rispondere educatamente, ma la verità è che non ne posso più di questa visione distorta e semplicistica nell’immaginario collettivo dell’adozione come atto di “beneficenza” che sottintendono i commenti simili a questi.
Parliamoci chiaro, se avessi voluto fare della beneficenza, avrei fatto altro. Per esempio volontariato qualche ora alla settimana o una donazione a favore di qualche onlus, non avrei certamente adottato due figli! Perché l’adozione, cito l’asettica ma inequivocabile definizione dell’enciclopedia Treccani, è un “istituto giuridico che fa sorgere un rapporto di filiazione in assenza di procreazione”. Se vogliamo tradurlo in termini affettivi, l’adozione altro non è che un modo diverso dalla procreazione per formare una famiglia. Una famiglia per la vita, un legame che dura fino alla morte, e anche oltre…
Chi si sognerebbe di andare da una coppia che ha appena partorito un figlio e dire loro “che bravi che siete stati, che bella cosa che avete fatto”. E lo stesso identico discorso vale per le famiglie adottive: è il naturale desiderio di creare una famiglia che spinge una coppia ad adottare, non l’idea di fare beneficenza. La differenza sta nella modalità con cui un bambino diventa figlio, non nelle intenzioni dei genitori. Io non ho fatto “una bella cosa”, io sono diventata madre. E mi butterei nel fuoco per le mie figlie, come qualsiasi altra donna che ha partorito. Poco importa per me se hanno il mio sangue oppure no.
Il fatto poi che nell’adozione al centro ci siano i bisogni del bambino e che l’adozione sia l’unico modo per dare una famiglia a un bambino che non ce l’ha o che non è in grado di prendersi cura di lui, non c’entra nulla con il motivo che spinge una coppia all’adozione.
Non si può adottare un figlio per spirito caritatevole. Non durerebbe a lungo.
Questi bambini, i nostri figli, hanno un disperato bisogno di sentirsi amati incondizionatamente dal profondo delle viscere, e lo chiedono a gran voce con i loro gesti ogni giorno, a volte urlandoti in faccia tutta la loro rabbia, a volte provocando fino all’esasperazione. Perché quello che chiedono è di essere amati. Quelle di questi bambini sono vite spezzate, spesso hanno totalmente perso fiducia negli adulti, quegli adulti che magari li hanno traditi o maltrattati, quando invece avrebbero dovuto prendersi cura di loro e proteggerli. La loro fiducia, il loro affetto ce lo dobbiamo guadagnare, tutti i giorni, non sono sufficienti un tetto sulla testa, dei vestiti, bei giocattoli, un’accurata istruzione. Ci vogliono il triplo dell’amore e il doppio della pazienza. Questi bambini ti entrano nell’animo, con le loro storie spesso dolorose, che dobbiamo essere capaci di ascoltare e custodire e che inevitabilmente diventano un pezzettino di noi.
No, non basta lo spirito di carità, ci vuole l’amore, quello con la A maiuscola, che solo una madre e un padre possono dare. Ed è solo grazie a quell’amore che questi bambini possono rinascere, diventando nuovamente e meravigliosamente figli.