Non è facile riassumere le conquiste delle donne degli ultimi decenni. La più grande conquista è l’avere posto, e continuare a porre, l’attenzione sul punto di vista femminile: in qualunque momento e in qualsiasi occasione. Che si tratti di un bilancio comunale o di come investire le risorse o quali priorità avere a cuore. Questo è sia il grande cambiamento che il grande contributo femminile alla società. Ma abbiamo avuto anche delle clamorose sconfitte. Penso al referendum sulla legge 40 (ndr. “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” del 2005). Una grande affermazione è la presa di parola delle donne. In Italia si è concretizzata soprattutto con i referendum sul divorzio e sull’interruzione di gravidanza che risalgono a più di 30 anni fa.
Dovremmo sempre porre le questioni che riguardano la libertà e i diritti delle donne al centro dell’attenzione senza farci ingannare da un grande equivoco che è stato alimentato, magari inconsapevolmente, a nostro discapito: che le questioni femminili riguardino solo le donne. Che vengano trattate solo fra donne è una piccola trappola dalla quale dovremmo sempre riguardarci. Tutto ciò che serve ad acquisire consapevolezza e rafforzare il potere delle donne in realtà è un vantaggio per l’intera umanità.
Negli ultimi 10 anni uno dei temi che finalmente è stato portato all’attenzione collettiva è purtroppo una tragedia: la violenza domestica reiterata, gli abusi, il femminicidio. Finalmente se ne parla ma non è un bel segnale. Ho fatto parte del cast di “Ferite a morte”, spettacolo che Serena Dandini ha scritto sul femminicidio. La cosa più spaventosa, al di là delle storie raccontate, era lo scorrere su uno schermo dei nomi delle vittime di femminicidio dell’anno precedente: dai 15 ai 90 anni. Da poco a Mestre ho partecipato all’incontro “Dalla parte di Nice”: si raccontavano le storie di bambine africane accusate di essere streghe e costrette ad ammettere la propria stregoneria ad 8 e 10 anni. È incredibile di come si cerchi sempre di controllare il femminile. La misoginia è una malattia subdola e molto radicata. C’è un costante tentativo di esercitare un sopruso sul corpo delle donne. Su questo dovremmo essere sempre più consapevoli e farci più combattenti.
I diritti delle donne sono i diritti di tutti. Come ho imparato tanti anni fa quando ho cominciato ad interessarmi di cooperazione internazionale: “se educhi un bambino educhi un essere umano. Se educhi una bambina educhi una comunità“. Sono le parole di Unicef. Ma c’è sempre una costante discrepanza tra ciò che noi donne siamo e facciamo nella società, a tutti i livelli e in tutti i luoghi del mondo, e il modo in cui poi veniamo rappresentate e la scarsissima rappresentanza e potere che abbiamo.
Si dovrebbe cominciare fin da piccoli ad educare all’uguaglianza di genere ma in modo non impositivo o pedante. Il problema non è, di colpo, usare la desinenza in “a”. Una certa attenzione al linguaggio è fondamentale ma il linguaggio muterà quando cambierà davvero la situazione. Dovremmo cominciare a non dare mai per scontato l’altro. Penso anche alla questione dell’identità di genere, seppure il termine sia riduttivo. Se la smettessimo di parlare ai bambini come se fossero automaticamente eterosessuali questo sarebbe già un piccolo passo avanti. Prevedere anche la diversità è un grande arricchimento. È difficile farlo ma non dovrebbe essere una imposizione. Servirebbe un’educazione sentimentale fatta seriamente in modo che le future generazioni siano in grado di educare bambini un po’ più liberi e consapevoli.
Spero che in futuro si possa procedere sulla strada della parità dei diritti, cercando sempre possibilmente di valorizzare le differenze: di vocazioni, talenti, potenzialità. Che la ricchezza della differenza venga valorizzata. In molti aspetti della vita collettiva l’apporto delle donne è una novità. Il punto di vista femminile è fresco e pieno di stimoli. È diverso da tutto ciò che è stato fatto finora e non può che portare un contributo positivo. Vorrei che si cominciasse di più a pensare in termini di vocazioni e talenti individuali, a prescindere dal genere. Se una donna è brava perché ad un certo punto della scala sociale deve lasciare il passo ad un uomo? che continui a fare ciò che sa, anche a livelli decisivi, dirigenziali e di potere.