La guerra del panino. Puntata numero due. Parla Giorgio Vecchione, l’avvocato che ha sostenuto il ricorso delle famiglie di Torino a favore del “panino libero” a scuola. Il tema ha destato interesse e dibattito. Nella discussione in rete dopo la pubblicazione del primo post, alcuni genitori si sono risentiti e hanno rivendicato il fatto che la battaglia sulla mensa a Torino è iniziata con l’obiettivo generale di avere una più equa distribuzione dei costi (caromensa). Non avendo ottenuto risultati si è scelta una strada nuova, che ha scommesso sul riconoscimento di un diritto individuale.
La scelta, avvocato, è stata efficace, visto l’esito legale, ma non si può negare che abbia perso la sua dimensione collettiva, a favore di tutti, non crede?
La battaglia dei genitori, in effetti, partiva dal fenomeno del cosiddetto “CaroMensa”, seppure alla fine, chi in realtà si è mosso per cercare di stimolare un cambiamento è stato un numero esiguo di genitori. La maggioranza, si sa, sta sempre a guardare per poi balzare sul carro del vincitore ed è esattamente quello che sta accadendo oggi. A seguito della sentenza che riconosce il diritto al Pasto da casa, la maggioranza silenziosa urla allo scandalo, si lancia in difesa della refezione comunale, si prefigge lo scopo di ridurne il costo e di migliorarne la qualità, ne esalta i valori e, pur sempre senza muovere un dito, accusa di individualismo chi ha avuto il merito di togliere il velo dai tanti segreti e dalle troppe inefficienze del sistema di refezione pubblica. Si badi, però che i genitori ribelli non son più poche decine, ma svariate migliaia in tutto il Paese e già c’è chi definisce tutto ciò un fenomeno sociale, molto lontano dall’individualismo.
La nuova organizzazione dei servizi mensa pone una serie di questioni pratiche, ad esempio il peso della gestione del pranzo dei bambini che spesso ricade sulle madri. Più in generale, le famiglie che scelgono il panino libero non contribuiscono come tutte le altre alla suddivisione dei costi del servizio ristorazione a favore delle famiglie più deboli. Questo meccanismo a lungo andare potrebbe rendere il servizio non più sostenibile?
In alternativa al pasto domestico la proposta della scuola era quella di prelevare i figli per l’ora del pranzo, salvo riaccompagnarli per la ripresa delle lezioni; anche in questo caso lo studente non avrebbe fruito del servizio collettivo, ma come ben può immaginare l’effetto è sempre quello di un bambino che non contribuisce per sostenere il peso del servizio. Pecca di ipocrisia, quindi, chi oggi, evidenzia questo aspetto. L’unica differenza rispetto al passato è quella per la quale una famiglia con entrambi i genitori impegnati sul lavoro, non è più costretta a sottostare al ricatto del sistema di dover iscrivere il figlio alla mensa comunale. È questo l’aspetto che più non piace alle amministrazioni locali. Se fosse accolta la nostra iniziale proposta di far gravare il costo sociale della mensa scolastica sulla fiscalità generale, non solo scenderebbe il prezzo del servizio, ma probabilmente aumenterebbero le risorse per migliorare la qualità ed arginare le defezioni dal servizio pubblico. Su questa proposta le amministrazioni hanno taciuto per anni.
Spesso i genitori, questo è evidente nelle discussioni in rete e sui social, sentono una forte impotenza nei confronti dell’istituzione scolastica quando sollevano istanze o problemi. Ma la scuola è una controparte in questa vicenda o si può invece considerarla un’alleata nel porre il tema delle risorse necessarie a garantire standard di sicurezza e qualità in aula?
Almeno per quanto concerne la questione pasto da casa in Piemonte, oggi, con estremo piacere, le famiglie stanno coltivando, nell’esclusivo interesse dei minori ed a salvaguardia della serenità della vita scolastica, un costruttivo dialogo con l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, al cui direttore generale, Fabrizio Manca, dev’essere riconosciuto il merito di aver gettato le basi per un dialogo sereno, anche attraverso l’istituzione di un Osservatorio finalizzato all’individuazione di nuove regole di serena coesistenza del servizio pubblico con i pasti casalinghi. Questo ha segnato anche una frattura con le amministrazioni comunali, portatrici di interessi squisitamente economici, ma si tratta di interessi destinati a soccombere di fronte ai superiori valori di accoglienza e di valorizzazione delle diversità insegnati a scuola.
Avete portato a casa un risultato importante dal punto di vista del riconoscimento dei diritti individuali. Una battaglia simile sarebbe fattibile anche su altri fronti come l’edilizia scolastica, la manutenzione delle scuole, i servizi igienici adeguati? Che idea si è fatto?
Un diritto soggettivo perfetto di rango costituzionale, quale quello accertato dalla Corte d’Appello, non è un diritto individuale, ma è un diritto della collettività; esso è solo individualmente esercitabile, ma in ciò non v’è nulla di deprecabile, soprattutto quando lo si esercita per sottrarsi alla mala gestio della cosa pubblica. Quando ciò accade l’amministrazione dovrebbe cercar di capire le cause e non affannarsi per reprimere gli effetti. Le altre battaglie di cui parla sono già da tempo combattute, silenziosamente, dalle famiglie che in ogni angolo del Paese si armano di pennelli e vernice per tinteggiare aule e corridoi, forniscono risme di carta e rotoli di carta igienica, versano contributi apparentemente volontari senza storcere il naso più di tanto. Da parte delle famiglie, per quanto loro possibile, l’aiuto allo Stato lo danno già. Di questo aiuto l’amministrazione ne ha abusato, troppo spesso, ritenendosi legittimata a non assolvere, diligentemente, ai propri doveri. Quelle cui fa riferimento, quindi, sono battaglie che nemmeno dovrebbero esistere, ma da avvocato e genitore, naturalmente, sarei pronto a combatterle entro i limiti e con gli strumenti, anche processuali, che ci consente l’Ordinamento.