L’approccio della signora di turno di solito è soft, ma non bisogna lasciarsi impressionare: un sorriso rassicurante, uno sguardo intenerito, un “Che belle che sono” e poi all’improvviso l’affondo: “Ma sono sue o le ha adottate?”. E qui c’è da chiedersi: che differenza fa sapere se le ho adottate o no, ma soprattutto il retropensiero sembrerebbe essere allora che se le ho adottate non sono mie! È un po’ come se fermassi la prima che passa per la strada e chiedessi: “Mi scusi, ma è figlia di suo marito o l’ha avuta da un altro uomo?”.
Sono perfettamente consapevole che quando cammino per la strada o mi aggiro tra gli scaffali del supermercato con le mie figlie di origine etiope è un po’ come se avessimo una luce lampeggiante accesa sulla testa che segnala la nostra presenza. Sono abituata agli sguardi incuriositi della gente, non mi danno fastidio. Ma le domande, quelle sono un’altra cosa. Capita spesso che la perfetta sconosciuta (di solito statisticamente è donna, l’uomo forse ha più pudore o è meno interessato all’argomento) si senta in diritto di chiedere le cose più assurde in barba, non solo a qualsiasi minimo concetto di privacy, ma soprattutto a ogni buon senso. Soprattutto se succede in presenza dei bambini. Si tratta di un’esperienza comune a tutti i genitori adottivi. E comuni sono anche le domande. Troppo facile però lamentarsi che sull’adozione ci sia poca informazione, se poi siamo i primi a nasconderci e allora cerco sempre di rispondere.
La seconda domanda che arriva puntualmente di solito è: “Ma sono sorelle?”. Se sono figlie mie sono sorelle, mi pare evidente. Ma qui il retropensiero è sapere se sono sorelle “vere”, di sangue. E anche stavolta mi chiedo, ma che differenza fa?
“E non potevate prenderle più piccole?”. Il retropensiero è: che sfortunati che siete stati, almeno il neonato lo cresci tu! “Guardi signora, intanto non è che uno possa scegliere, è una disponibilità che si dà ad adottare e poi anche un bambino di 10 anni ha bisogno di una mamma e di un papà”.
“Ma la chiamano mamma?”, incalza di solito la sconosciuta. Una volta ho pensato di rispondere con ironia “Sa signora, avevo detto loro di chiamarmi nonna, ma come vede sono troppo giovane, fanno fatica!”, ma poi ho preferito tacere, soprattutto perché spesso le domande vengono rivolte tranquillamente senza preoccuparsi della presenza dei bambini. E, infatti, ecco l’immancabile: “E i veri genitori? Se li ricordano? Sanno dove sono?”.
I figli ci guardano mentre rispondiamo e mi chiedo davvero come si possa fare una domanda del genere davanti a loro, senza alcuna attenzione per le loro storie di sofferenza ma soprattutto dei loro sentimenti. Qui di solito mi fermo, non è più la mia storia ma quella delle mie figlie e io non ho alcun diritto di raccontarla ma ho l’opportunità, il dovere, forse, di fare informazione: “In adozione vanno solo i bambini che sono rimasti senza mamma e papà. Di questi gli orfani sono una piccola percentuale. La maggior parte dei genitori naturali ha perso la patria potestà o vi ha rinunciato. I genitori adesso siamo noi. Arrivederci”.
Forse la prossima volta la signora ci penserà due volte prima di lanciarsi in questo interrogatorio serrato e inopportuno e io avrò risparmiato lo stesso trattamento a qualche altra famiglia.