La terra è inquieta e gli uomini su di essa si muovono freneticamente: alcuni migrano in cerca di posti migliori in cui vivere, come uccelli assediati dall’inverno, e altri, che abitano i luoghi reputati migliori, ora accolgono ora respingono i primi, con ritmo alterno.
È la grande questione dei nostri giorni e costituisce l’asse portante della coraggiosa mostra in Triennale La terra inquieta, ideata da Massimiliano Gioni in collaborazione con Fondazione La Triennale e Fondazione Nicola Trussardi.
Interrogandosi “sul ruolo dell’artista come testimone di eventi storici e drammatici e sulla capacità dell’arte di raccontare cambiamenti sociali e politici”, Gioni convoca numerosi artisti, per lo più giovani di Paesi che gravitano attorno alle rive del Mediterraneo, e crea una jam session di voci diverse, linguaggi alternativi, storie strazianti o fiabesche, mondi culturali e artistici distanti eppure capaci di dialogare tra loro, forse confusamente: Babele del resto è un simbolo che non smette, significativamente, di affascinarci.
L’arte contemporanea, lo sappiamo, è un luogo nel quale i linguaggi vengono continuamente messi in tensione per vincere la sfida di colpire la nostra attenzione, bombardata con dosi massicce di immagini, parole e notizie dai massmedia giorno dopo giorno, anzi ora dopo ora, con un effetto di anestetico che stroncherebbe un elefante.
Eppure, se ci soffermiamo davanti alla vecchia Fiat Panda con targa tedesca di Manaf Halbouni, stipata di tutti i semplici oggetti che nutrono la nostra intimità – libri, una caffettiera, delle padelle, un paio di sci, un monopattino, vecchie valigie, ecc… -, ci sentiamo toccati intimamente: Nowhere is home ha intitolato l’installazione questo ragazzo siriano (nato a Damasco nel 1984) residente in Germania; come raccontare meglio il senso di precarietà di chi non ha un luogo che possa chiamare casa e, come una lumaca, deve potere in ogni momento portare con sé tutte le sue cose, confinando il proprio mondo nell’orizzonte di un’automobile? Così, davanti alla pila accatastata di grigie coperte e alle tre lampade accese di Meschac Gaba (Benin 1961), segnale per le anime di coloro che sono scomparsi – Memoriale aux Réfugiés noyés (Memoriale per i rifugiati annegati) del 2016 –, è difficile non essere colti da un sussulto: un’estrema semplicità di mezzi espressivi ci tocca il cuore.
Da questi esempi possiamo capire cosa non sia questa mostra: non è un manifesto politico. L’arte contemporanea ha sofferto in alcune sue correnti (la Biennale veneziana di due anni fa ne fu esempio eloquente) di un equivoco: confondere il ruolo dell’artista con quello del politico, riducendo la fertilità metaforica del linguaggio artistico a grancassa di una posizione ideologica. Un modo sbagliato di vivere questa mostra sarebbe percorrerla per rafforzare la propria opinione sul fenomeno migratorio: che si sia adepti de “l’Italia agli italiani, difendiamo la nostra identità” o seguaci del “non esistono frontiere, tutti vadano ovunque desiderino (meglio però nel giardino del vicino…)”, è meglio lasciare l’armatura dei nostri pregiudizi in guardaroba, con le borse e gli zaini. Ne guadagneremo quantomeno in leggerezza e, soprattutto, in pulizia dello sguardo.
Che il piano non sia solo politico lo indica la bellissima opera del belga Francis Alÿs, (Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River, 2008), non a caso scelta come immagine di comunicazione della mostra. Nel suo video Alÿs racconta un’utopia fiabesca: se una fila di ragazzi spagnoli di Tarifa si mettesse in mare, portando una piccola barca montata su una ciabatta, e lo stesso facesse, all’altro capo del Mediterraneo, una fila di ragazzi marocchini di Tangeri, non si incontrerebbero forse all’orizzonte? Accanto al video, dei piccoli, deliziosi quadretti, evocano con tratti leggeri e sognanti le due sponde e le persone che guardano verso l’orizzonte del mare. Di fronte alla durezza spesso insostenibile della cronaca l’utopia di Alÿs non è una fuga, ma l’intuizione di altre possibilità e altre prospettive, di cui abbiamo disperato bisogno.
Una sezione della mostra ripercorre la parabola di migranti degli italiani sul finire dell’800 e all’inizio del ‘900 attraverso le famose copertine popolari della “Domenica del Corriere” (di Achille Beltrame e Walter Molino) e le bellissime foto di reportage di Lewis Wickes Hine, il grande fotografo americano cantore (fra l’altro) delle comunità italiane in America, ricordandoci quando eravamo noi a cercare fortuna altrove.
Molte opere hanno un colore drammatico, quando non tragico: i servizi dal respiro solenne di Mauricio Lima e Sergeij Ponomarev, fotografi per il “New York Times”, che descrivono un viaggio di migranti nel 2016 attraverso i Balcani, o quelli del reporter greco dell’Associated Press (AP) Aris Messinis, che si occupa del tragitto marittimo dalla Libia attraverso la Grecia, non possono lasciare indifferenti. I giovani ripresi da Messinis che attraversano il gommone, passando accanto ai cadaveri dei loro meno fortunati compagni, sono difficili da dimenticare, così come le fotografie di piazze siriane destinate alle esecuzioni capitali di Hrair Sarkissian (Damasco 1973; Execution squares del 2008): immagini nitide ed eleganti, rese inquietanti dal silenzio e dall’assenza di ogni presenza umana.
Queste opere ci portano a un altro tema delicato e controverso, quello della verità dell’arte. Dopo tante discussioni teoriche e critiche sulla convenzionalità dei linguaggi, molti artisti dimostrano una grande fiducia nella capacità dell’arte “di produrre una comprensione più complessa della realtà” (come scrive Gioni in catalogo), utilizzando i codici e i linguaggi in un modo differente da quello dei media, anarchico, contaminato, creativo.
Mi piace ricordare la barca – una vera imbarcazione abbandonata in Florida, probabilmente da migranti cubani – dell’algerino Adel Abdessemed, Hope del 2011-12, stipata di pesanti sacchi di immondizia (realizzati in resina nera), visto che a questo sono spesso paragonati e ridotti i migranti, o la scintillante New World Map (2009) del ghanese El Anatsui, un arazzo da appendere che, avvicinandosi, si rivela fatto di tappi ed etichette rilucenti di alcolici: le grandi rotte nel nostro mondo sono spesso dettate dal commercio, in questo caso degli alcolici che, introdotti in Africa occidentale dagli europei, ebbero un impatto devastante sulle popolazioni.
Oltre alla fotografia, di cui si esalta la forza testimoniale, il video è tra i mezzi espressivi favoriti, maneggiato in modo da non confondersi con un brano di telegiornale, come nel solenne Vertigo Sea (2015) del ghanese John Akomfrah, che intreccia su differenti piani onirici e temporali il comune destino di vittima di animali e uomini, sullo sfondo sconfinato dell’oceano immenso. O come nelle opere della marocchina Bouchra Khalili (Mapping Journey, 2008 / 11) sui viaggi dei migranti: nei video ascoltiamo dalla viva voce dei protagonisti il racconto del loro itinerario, non li vediamo in volto – evitando così ogni meccanismo di immedesimazione e ricatto emotivo tipico dei media -, perché lo schermo è interamente occupato da una colorata mappa su cui la mano del migrante, armata di pennarello, disegna man mano la traiettoria delle proprie peregrinazioni. È un approccio di grande originalità, che dà evidenza plastica allo spazio che ci circonda e determina tanta parte delle nostre e altrui vite, parlando al nostro intelletto, oltre che ai nostri sentimenti. L’altra opera della Khalili, a questa connessa, è la serie di stampe The Constellation Series (2011): su uno sfondo di profondo blu cielo Bouchra tratteggia con linee di puntini bianchi gli snodi principali percorsi da questi viaggiatori, traendone il disegno di fantastiche costellazioni. Sì, questa è una nuova mitologia, ambigua e feconda come l’antica.