Dietro le sbarre. Storia di Ombretta che restituisce dignità umana

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTOQuesta storia inizia così. Con una mail gentile, inviata a me e Nicoletta Carbone, con la quale ho la fortuna e il piacere di condividere a Radio 24 la conduzione del programma quotidiano Cuore e denari.

“Sono una insegnante di alfabetizzazione presso il carcere di Rebibbia. Ascolto il vostro garbato programma e accolgo gli stimoli di riflessione che proponete. Penso a quella parte di popolazione detenuta, così deprivata sia dal punto di vista umano che culturale, con la quale mi confronto ogni giorno. In modo molto diretto trovo il coraggio di chiedervi libri (o qualsiasi materiale in esubero che magari rimane inutilizzato) per poter arricchire una piccola biblioteca di classe, o comunque fornire stimolo per leggere, discutere e confrontarsi”.

Inutile dire che ci siamo attivate all’istante ma, in particolare, a me ha colpito la storia di questa donna che ha scelto una strada professionale così particolare. Continuando il nostro carteggio le chiedo di raccontarmi qualcosa di più. Ombretta ha un comprensibile momento di pudore. Della realtà del carcere nessuno di noi sa nulla, soprattutto se ha avuto la fortuna di non viverlo – direttamente o indirettamente – sulla propria pelle. Impossibile non cadere nelle banalità.

“Io stessa ho iniziato a capire solo dopo molti anni meccanismi reali di questa macchina così farraginosa che pochi hanno interesse ad oliare! Dimmi tu” – mi chiede Ombretta – “cosa potrei fare per raccontare questa parte della società senza cadere nel pietismo che non porta nessun valore aggiunto?”.

L’istinto mi dice che devo forzare un po’, perché il lavoro di questa donna è così speciale che voglio, prima di tutto per me stessa, questa lezione di vita. Con timidezza Ombretta condivide con me un pezzettino della sua storia.

“Ho iniziato a lavorare in carcere direi per caso e sono già passati più di 20 anni. Perché svolgo lì il mio lavoro? Me lo chiedo spesso. Avrei tanta voglia di stare finalmente in mezzo al bello, avere la possibilità di portare la mia borsa al lavoro, poter fare una telefonata a casa quando sono preoccupata per qualcuno, non iniziare la mia giornata passando sotto il metal detector, indossare una gonna con disinvoltura o mettere un rossetto, stare in un ambiente che non abbia solo il blu delle porte blindate e il grigio delle pareti…”.

Anche se ci stiamo solo scrivendo e non sento la sua voce, non avverto nessuna frustrazione in questa donna, ma – al contrario – grande serenità nella piena consapevolezza del valore della sua opera quotidiana. Come la gocciolina che scava la pietra.

“Potrei raccontare moltissime storie: ho conosciuto ladruncoli, ladri, assassini, pluriassassini, stupratori. Li ho guardati sempre dritto negli occhi e non ho mai smesso di scommettere su quella parte migliore che ogni uomo possiede. Penso che la natura umana abbia delle potenzialità inaspettate e chiunque di noi può cambiare, crescere ed essere sempre un po’ più felice”.

Per me la parte più significativa della sua testimonianza è quella che segue. Mi commuove:

“Quando il corsista detenuto arriva in classe è diffidente, non parla, è quasi immobile. Del resto è fisicamente abituato a vivere in pochi metri quadrati. Piano piano però, per venire a scuola indossa i vestiti migliori, cura la barba, inizia a sorridere e poi a raccontare la propria storia, della propria vicenda giudiziaria e dei propri affetti che spesso non ci sono più. E’ questo il momento in cui inizia il processo vero e proprio di apprendimento, il momento in cui posso proporgli un percorso di studio e fare qualcosa di veramente utile in quel momento della loro vita. Non c’è possibilità di sviluppo educativo se qualche cambiamento non avviene all’interno degli individui. In carcere non c’è riflessività, c’è il pensiero quotidiano della sopravvivenza, dell’oblio, un pensiero continuo di difesa, anzi il pensiero viene negato. Il percorso formativo che la scuola propone è la possibilità dello sviluppo di un pensiero altro, mira a costruire una soggettività, un’autonomia, a colmare – ad esempio con la lettura – la solitudine in cui si è costretti. Di contro in carcere si è continuamente osservati e sorvegliati, controllati dai compagni, dalle guardie, dall’educatore, dallo psicologo, da chiunque. Devi fare il bravo o fare finta di fare il bravo!”.

Solo chi conosce il senso vero della detenzione come momento di riabilitazione alla vita sa cosa fare con queste persone. Come Ombretta:

“I docenti non sono né giudici né confessori. Lo studio in un ambiente scevro da queste preoccupazioni aiuta il detenuto-alunno a conquistare uno spazio interiore di crescita e di sviluppo”.

Il commento di circostanza è inutile. Questa è una piccola storia che parla da sé. Ci piace chiudere immaginando Ombretta che dialoga in aula con i suoi alunni adulti segnati da un destino infausto. E con l’immagine che è la stessa con cui Ombretta chiude la sua mail per me.

“A volte penso a Lutero a cui chiesero: Cosa farebbe se sapesse che domani finisce il mondo? Lutero rispose: Pianterei un alberello”.

Grazie Ombretta, per tutto quello che fai.

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  • Laura |

    Grazie per la bella storia. Si può avere qualche riferimento di questa persona per inviare dei libri e scambiare qualche impressione? Grazie!

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