«Il climate change riguarda tutto il mondo, non la metà di esso». Può sembrare un’ovvietà, ma centinaia di attiviste sono state costrette a ribadirlo, dopo le nomine del comitato organizzativo della Cop 29 in Azerbaigian, il Summit sul clima delle Nazioni Unite del 2024. Su 28 delegati, inizialmente non era stata scelta alcuna donna. Dopo le polemiche, Baku ha fatto marcia indietro aggiungendo al consesso 12 esperte e un altro uomo. Il segnale rimane però preoccupante, tanto più che il rapporto tra l’emergenza ecologica e le disparità di genere ha acquisito sempre più rilevanza nel dibattito internazionale.
«Sebbene il cambiamento climatico sia un problema collettivo – scrive infatti Katharine K. Wilkinson, coeditrice insieme ad Ayana Elizabeth Johnson dell’antologia “All We Can Save” – il suo impatto sarà sproporzionato, con effetti distorti sulle popolazioni più vulnerabili del mondo, in particolare donne e ragazze». Nonostante la popolazione femminile abbia in media un’impronta carbonica minore del 16% rispetto a quella maschile, subisce in maniera più accentuata le conseguenze del surriscaldamento globale, a livello sanitario, sociale ed economico. Per fare un esempio, l’80% delle persone sfollate da forti alluvioni o incendi disastrosi sono donne. La precarietà e la povertà, inasprite da tali eventi, determinano un’esposizione maggiore alla violenza domestica, al traffico sessuale o ai matrimoni precoci. Così, oltre a rappresentare una minaccia in sé, il cambiamento climatico diventa per donne e ragazze «un moltiplicatore di minacce».
Più esposte alle cause del climate change
In generale, le donne sono più vulnerabili agli effetti della crisi climatica per una serie di fattori sociali, economici e culturali. Secondo l’Onu, il 70% degli 1,3 miliardi di persone che vivono in condizioni di povertà è di genere femminile. Nelle aree urbane, sono spesso le madri (40%) a guidare le famiglie a basso reddito. Le loro responsabilità non sono minori nelle comunità rurali: in Africa, Medio Oriente e Caraibi e Sud America contribuiscono fino al 50% alla produzione agricola dei loro Stati e hanno un ruolo determinante nel sostentamento domestico. Quando si tratta di prendere decisioni per proteggere i raccolti o evitare i disastri causati dalla crisi climatica, hanno però pochissima voce in capitolo. Non soltanto a livello politico, dove, secondo Oxfam rappresentano meno del 24% dei parlamentari eletti nel mondo, ma anche sul piano operativo. Solo il 12,6% dei proprietari terrieri è donna, sempre in base ai dati Onu. Anche per questa piccola percentuale la situazione non è semplice: il 90% dei fondi governativi per l’agricoltura è destinato a latifondisti maschi. Dunque le loro omologhe femminili hanno meno possibilità di accedere alla formazione sulle nuove tecnologie e a finanziamenti per progetti di riparazione e resilienza.
Più vulnerabili agli effetti
In caso di calamità naturali le donne sono poi sono costrette a lavorare di più per proteggere i raccolti superstiti e recuperare quelli perduti. Spesso devono farlo in condizioni di salute compromessa e senza l’accesso a presidi medici o prodotti igienici essenziali, come quelli per le mestruazioni. Inoltre, secondo le norme socioculturali di diversi Stati, sono i mariti o i figli maschi a emigrare o a cercare nuove opportunità all’estero. Alle donne spetta invece badare alla famiglia. Madri e ragazze sono quindi costrette rinunciare agli studi e a sobbarcarsi il lavoro di cura non retribuito – svolto per il 75% dalla popolazione femminile in “condizioni normali” – per aiutare la comunità nella ricostruzione. Inoltre, in situazione di stress come disastri climatici e guerre «le donne subiscono un aumento della violenza domestica, delle intimidazioni sessuali, del traffico di esseri umani e degli stupri», spiegano gli esperti di Un Women. I pericoli e le discriminazioni aumentano per le persone Lgbtq+ o con disabilità.
Che fare?
È dal 2012 che il rapporto tra donne e cambiamenti climatici è un tema fisso delle riunioni delle Conferenze delle Parti (Cop). I progressi però sono pochi e lenti. Solo il 2% delle storie sull’emergenza ecologica ha una prospettiva di genere, secondo quanto uno studio svolto durante la Cop 26 di Glasgow. Il 60% dei Paesi poi non dispone di dati sulla questione, spiega il centro di ricerca Data2X, e solo pochi fanno riferimento ad essa nei loro impegni nazionali sul clima. Tuttavia «una migliore integrazione delle donne e dei gruppi emarginati nel processo decisionale a tutti i livelli – afferma la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc) – contribuirebbe a migliorare le politiche di mitigazione e adattamento». Nella storia sono numerose le figure di politiche e attiviste che si sono battute per misure ecologiche rigorose. Nella vita quotidiana poi, secondo sondaggio realizzato nel 2021 dal Women’s forum su quasi diecimila persone nei paesi del G20, sono soprattutto le donne a cambiare le loro abitudini per ridurre il proprio impatto. Soprattutto si impegnano a motivare le persone intorno a loro a farlo, proprio perché «il cambiamento climatico riguarda tutto il mondo, non la metà di esso».
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