Si scrivono sulle chat, sui social, si conoscono col passaparola, si affidano l’una all’altra e scendono in piazza, manifestano per le strade, davanti alle prefetture, ai palazzi di Giustizia, in tutta Italia da Venezia, Torino, Milano a Bologna, Roma, Napoli. L’ultima protesta martedì 12 ottobre a Montecitorio, organizzata da Verità Altre, Maison Antigone, Comitato madri unite contro la violenza istituzionale e il progetto Medusa. Sono donne, madri che si uniscono per portare all’attenzione di tutti le loro storie così diverse e così uguali. Donne che dopo aver denunciato le violenze dell’ex marito o compagno vengono ritenute deboli, iperprotettive o ostacolanti, comunque non idonee a crescere i figli, per essere rimaste col violento, per non aver “protetto” i bimbi o per volerli allontanare dal padre che – citando testuali parole – è violento con la moglie ma non ha mai toccato i figli, quindi può essere un buon padre.
Così i minori sono obbligati ad avere contatti col padre violento, vengono dati in affido condiviso o allontanati dalla madre, in nome della bigenitorialità, perché le denunce per violenza nella quasi totalità dei casi di affido non vengono prese in considerazione. Lo confermano i giudici, i magistrati e la relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio: il 95% dei tribunali non è in grado di dire in quante cause di separazioni, divorzi, provvedimenti riguardo ai figli emergono situazioni di maltrattamenti e abusi. E anche quando la violenza è nota e accertata, in meno di un terzo dei casi gli atti del procedimento penale vengono acquisiti dal civile.
“Quando ho segnalato al consulente tecnico d’ufficio, che doveva valutare la nostra capacità genitoriale, la denuncia per violenza domestica, la risposta è stata chiara: questo deve rimanere fuori, stiamo valutando altro. Ma se mio marito mi mette le mani addosso davanti a suo figlio, mi viene il dubbio che possa non essere così autonomo e in grado di badare al bambino. Io voglio che la sua violenza venga arginata. Così è arrivata la minaccia: se continua a essere conflittuale le tolgo suo figlio e lo metto in casa famiglia”. Francesca (nome di fantasia) è giovane, una ragazza di buona famiglia, anni fa sposata con un dirigente. Ci tiene a dirlo per sottolineare che la violenza è trasversale, colpisce donne di qualsiasi strato sociale, economico e culturale, senza distinzioni. “Lì ho capito, mi sono messa una maschera e sono andata avanti come chiedevano loro. Così facendo non ho perso mio figlio – continua Francesca – Quando ti siedi davanti a certi ctu, in te cercano conferma della loro idea di madre: se sei alienante, ipercontrollante, se vuoi eliminare il rapporto padre-figlio, se sei interessata ai soldi. Tutto viene gestito in funzione di quell’obiettivo. Bisogna stare molto attente, anche alle parole, mettersi una maschera, essere sorridenti, carine, disponibili perché se solo parli di conflitto o cerchi di far valere le tue ragioni rischi di essere considerata inadeguata e non vedere più i tuoi figli. La violenza contro le donne è l’unico reato in cui si mette in discussione la denuncia”.
Mentre ci racconta la sua storia, Francesca è insieme ad altre donne, madri che protestano con le associazioni Maternamente e Movimentiamoci Vicenza per avere giustizia per sé e per i propri figli. La loro campagna si chiama #rivoluzionematerna, sono tante, vivono in contesti differenti, hanno vissuto esperienze differenti, ma tutte con un unico filo conduttore: dopo mesi e anni di violenza in famiglia, picchiate, minacciate, aggredite, stalkerizzate davanti ai loro figli, denunciano e lì inizia la lotta per l’affidamento. Perché – ribadiscono – se cercano di tutelare i bimbi dal papà che ha usato violenza, spesso assistenti sociali, giudici, ctu le ritengono madri conflittuali che non vogliono permette al padre di vedere il figlio.
Alla base c’è la teoria della alienazione parentale, la PAS, secondo cui il bambino rifiuta il padre perché la madre è “simbiotica, malevola, ostativa”. Una sindrome non riconosciuta scientificamente, bocciata da Organizzazione mondiale della sanità, Corte di Cassazione italiana e ora anche dal Parlamento europeo. Il 6 ottobre gli europarlamentari hanno infatti approvato una risoluzione con misure urgenti a tutela delle vittime di violenza nei casi di affidamento dei figli, chiedendo agli stati membri di non riconoscere la pas nei tribunali, soprattutto nei casi di violenza e di formare tutti i professionisti coinvolti nel settore, da quelli forensi ai servizi sociali, forze di sicurezza, medici e psicologici.
“Ho denunciato il mio ex compagno per stalking. Per allontanarmi dal mio territorio di provenienza, gli assistenti sociali hanno mandato me e mio figlio in una casa famiglia: 4 anni orribili, è stato come vivere in un carcere. Mi hanno giudicata non idonea, volevano portarmi via il bambino. Ne sono uscita grazie ad avvocati pagati con i soldi ricavati dalla vendita del mio appartamento. Ora siamo insieme, ma non è finita portiamo le cicatrici di quello che ci è accaduto”, ci racconta Chiara, altro nome di fantasia. Accanto a lei c’è Teresa, che invece non vuole rimanere anonima. La Corte di appello ha rigettato il suo reclamo contro il collocamento del figlio di dieci anni in casa famiglia. Nove giorni fa lo hanno portato via a forza tra le urla e i pianti. “Il mio bambino non vuole andare in comunità, si era chiuso in casa. Il padre lo ha riconosciuto quando aveva cinque anni ed in altri cinque anni, senza mai occuparsene concretamente, è riuscito ad imporre per lui la casa famiglia”, sottolinea Teresa, che in passato ha denunciato l’ex compagno, condannato per lesioni e omesso mantenimento.
“Questa è la rivittimizzazione delle donne che denunciano la violenza. Nonostante le prove, i certificati medici del pronto soccorso, condanne dell’ex in primo grado o con rito abbreviato, i figli sono costretti ad affidi condivisi o collocati presso le comunità o i padri. E i casi sono in crescita”, ci spiega Emanuela Natoli di Movimentiamoci Vicenza, che a Torino ha incontrato il procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo. A Milano le associazione hanno avuto un colloquio con la procuratrice aggiunta Letizia Mannella, che guida il pool di magistrati che si occupa dei reati contro i soggetti deboli, donne e bambini, oltre a Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano, da molti anni impegnato nel contrasto agli abusi sulle donne. “Tutta la magistratura è impegnata per affinare la formazione e abbattere i tempi della risposta giudiziaria. Si tratta di diritti fondamentali, la cui lesione deve trovare sempre un’attenzione giudiziaria”, sottolinea Roia, Ambrogino d’Oro nel 2018 proprio per il suo impegno nel contrasto alla violenza sulle donne.
“Chiediamo di prendere in considerazione gli ultimi risultati della Commissione di inchiesta sul femminicidio e l’abrogazione della legge 54. Chiediamo la fine dei prelievi coatti dei bambini, con l’apertura di procedure ispettive presso ogni tribunale, la verifica del corretto esercizio dell’azione giudiziaria da parte di magistrati e giudici”, continua Natoli. L’articolo 155 della legge 54 dell’8 febbraio 2006 spiega che “anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore”. “Questa legge stabilisce in sostanza che bigenitorialità e affido condiviso al 50 e 50 costituiscono il bene primario per il minore, senza considerare i casi di violenza”, ribadisce Paola Pieri di Maternamente.
“Chiediamo azioni legali e giudiziarie immediate, un decreto legge e disposizioni urgenti, anche da parte dei Presidenti dei Tribunali, per bloccare e revocare le ablazioni che continuano ad essere disposte e attuate nonostante la Cassazione (ordinanza 13217 del 2021) abbia considerato l’alienazione parentale (Pas) una teoria nazista (espressione di una inammissibile valutazione di tatertyp) e dunque il suo uso un conseguente vero e proprio abuso e una violenza privata“, ci spiega Michela Nacca, presidente Maison Antigone.
“Vogliamo l’assunzione di responsabilità da parte dei Ministeri Giustizia e Salute, del CSM, delle stesse Procure a cui giungono da anni innumerevoli querele ed esposti: la teoria Pas, comunque ridefinita, è una distorsione divenuta sistemica, la cui ascientificita’ e pericolosità è già stata chiarita dalla Cassazione nel 2013. Nonostante ciò i tribunali di merito continuano a delegare ai ctu le loro decisioni. Le ablazioni rappresentano solo l’apice finale, quando i bambini terrorizzati – se pur minacciati di esser portati via – non riescono ad accettare la presenza paterna, che temono come pericolosa. Il bambino viene così resettato in casa famiglia, con una terapia riabilitativa di nessun fondamento scientifico e i colloqui protetti tra il bambino e la madre vengono ammessi solo dopo mesi o anni. Anche alla base di tanti femminicidi e figlicidi c’è l’uso della teoria dell’alienazione parentale, che impedisce di credere alle denunce delle madri, imponendo il diritto di contatto, l’affido congiunto o esclusivo al padre, anche quando condannato”, sottolinea la presidente di Maison Antigone. Basti pensare al caso di Federico Barakat, ucciso nel 2009 dal padre durante un incontro protetto; a Marianna Manduca ammazzata nel 2007 dall’ex marito, a cui era stato dato l’affidamento dei tre figli nonostante 12 denunce per violenza domestica; ai fratellini Iacovone (2013) e Pontin (2020), alle sorelle Capasso (2018), tutti uccisi dal padre per colpire la madre che aveva allontanato l’ex per le violenze. E nonostante ciò lui continuava a vedere i figli.
Molte donne uccise avevano denunciato, altre invece non avevano denunciato per paura di veder allontanati i figli, spesso dietro minacce. Come successo a Jessica. Sua mamma Renza è al fianco di queste donne. “Le sento tutte figlie mie – ci racconta – Jessica ha cercato di separarsi tre volte, l’ultima lui l’ha uccisa, la minacciava da sempre. Suo figlio all’epoca aveva tre anni, lei voleva ricominciare per lui ma non ce l’ha fatta, quell’assassino non glielo ha permesso. Purtroppo per paura di perdere i figli, tante vittime di violenza restano con l’uomo che le maltratta e rischiano la vita. Vengono considerate troppo deboli o troppo protettive, mamme inadeguate che ostacolano il rapporto del figlio col padre maltrattante perché alienanti. E se il bimbo non vuole vedere il padre non è perché il padre è violento, ma perché la mamma lo manipola. Tante volte a questi padri dei figli non importa granché, li usano per controllare le ex compagne. Lo dico per esperienza”.
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