“Quando uno torna a casa sa ogni giorno del rischio di poter essersi inconsapevolmente contagiato e quindi di poter infettare il proprio figlio. Sono quindici giorni che non saluto più i miei due figli adolescenti se non da molto lontano, non gli do un bacio né una carezza. Non voglio rischiare di passargli l’infezione”.
Al di là della fatica fisica, c’è quella familiare, anche a casa #distantimauniti: “molti miei colleghi hanno scelto di vivere in stanze separate dal resto della famiglia” racconta ad Alley Oop Fabio Piscaglia, medico che ora dirige un reparto che ospita i malati Covid19 positivi all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna.
Vittime tra i medici, 51 morti in Italia certificati mercoledì 27 marzo, 6414 gli operatori sanitari contagiati. Ha appreso della morte di un collega al Policlinico San Marco di Zingonia (Bergamo) dopo aver contratto un’infezione da coronavirus anche Chiara, nome di fantasia di un’infermiera che lavora nella struttura da una ventina d’anni.
“Ti rendi conto di come vivi questa emergenza quando torni a casa dopo turni massacranti e ti trovi a ripensare chi hai gestito, chi ti trovi davanti, gli occhi che ti implorano perché magari stanno per morire e non riescono a respirare, e tu sei la loro unica ancora di salvezza”.
Tornata da un turno prolungato, Chiara una sera si è sentita in colpa per aver lasciato sole le colleghe, con ”pazienti inevitabilmente in corridoio, perché non c’era spazio dove metterli. Arrivano a ondate, e non hai il modo di gestirli adeguatamente, non hai tregua e il tempo di sopperire a quelli che sono i loro bisogni, che possono essere quelli di andare in bagno, bere, perché hanno la febbre, si disidratano, hanno la terapia, tu devi pensare a loro, a gestire ciò che normalmente non si fa in un Pronto Soccorso”.
Diventata virale su Instagram, la fotografia che ha pubblicato Alessia Bonari, infermiera toscana, mostra i segni della mascherina in volto dopo l’ennesimo turno massacrante.
“Sono un’infermiera e in questo momento mi trovo ad affrontare questa emergenza sanitaria. Ho paura anche io, ma non di andare a fare la spesa, ho paura di andare al lavoro. Ho paura perché la mascherina potrebbe non aderire bene al viso, o potrei essermi toccata accidentalmente con i guanti sporchi, o magari le lenti non mi coprono nel tutto gli occhi e qualcosa potrebbe essere passato” ha scritto su Instagram Alessia Bonari. “Sono stanca fisicamente, perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto”.
Nelle ultime due settimane sempre il medico Fabio Piscaglia ha lavorato al Sant’Orsola tutti i giorni dalle 8 alle 21. “Sono arrivato una mattina sapendo di avere un reparto di medicina interna da gestire come tutti i i giorni e mi sono ritrovato di sera che il mio reparto non c’era più, chiuso, in quanto ne abbiamo di necessità aperto un altro in un piano più adatto, dedicato ai Covid positivi”. Quello dei medici impegnati nell’emergenza è un lavoro continuo, che richiede l’osservazione rigorosa delle regole, dove non si può sbagliare.
“Bisogna imparare come vestirsi, mettere i calzari, la tutina, il cappellino, la visiera e i guanti, imparare a disinfettarsi dall’oggi al domani. Tutto il personale ha stravolto la propria vita. Ci sono reparti filtro dedicati a malati sospetti ma non sicuri Covid, e in questo caso il personale si deve spogliare e rivestire per ogni malato, perché sui sospetti quello vicino potrebbe non avere il virus, e quindi bisogna stare attenti a non contagiare chi potenzialmente non ce l’ha. Il virus è contagioso attraverso delle goccioline che escono dalla bocca e dal naso, che bisogna evitare vadano sulla faccia dell’operatore e sulle mani per non rischiare di infettarsi o infettare altri”
Sulla contagiosità interviene anche Benito Ferraro, chirurgo dell’ospedale Sant’Antonio di Padova, vice segretario generale di Cimo del Veneto, in contatto con altre sedi compreso l’Ospedale di Schiavonia, del comune di Monselice (Padova),uno dei focolai principali, insieme al primo nel Lodigiano, dove è scoppiato il virus, che aveva reso necessaria la chiusura dell’ospedale.
“A Schiavonia anche medici non affini alle malattie infettive, chirurghi e geriatri, sono stati invitati a collaborare e a dare il cambio ai colleghi che fanno turni massacranti” spiega Ferraro “E’ necessario soprattutto avere medici che abbiano competenze specifiche di rianimazione, perché c’è il rischio che il personale si ammali, perché si gioca la vita delle persone”
Sono in prima linea insieme a medici e infermieri, ma di loro non si parla quasi mai perché la loro trincea è quella dei laboratori di analisi e senza di loro verrebbe a mancare il prezioso supporto degli esami: sono i tecnici di radiologia.
“Un mio collega è stato uno dei primi a essere isolato a Codogno“ racconta ad Alley Oop un tecnico di radiologia che opera nel bergamasco, lodigiano, lecchese, su strutture tutte private convenzionate. “Io non ho mai smesso di lavorare un giorno se non quando sono stata mandata a casa perché hanno scoperto che il 28 febbraio avevo fatto una tac a un paziente rivelatosi poi positivo al coronavirus, per cui mi è stata poi fornita la mascherina fpp3, e sono tornata a casa, rimanendo in casa 15 giorni. Per fortuna io sto bene, non ho sintomi, non ho la tosse, non ho la febbre”.
La paura nata dalla lettura dei necrologi sull’Eco di Bergamo è aumentata notevolmente, soprattutto per i pazienti che ricevono l’indicazione di rimanere a casa, finché non stanno male. “Molti sono spaventati” prosegue il tecnico di radiologia “La gente ha paura, mi chiama e mi chiede dove può andare a fare una lastra del torace, perché sono nel panico più assoluto, le strutture sono tutte molto oberate. Una congestione che ha suscitato in alcune persone la paura di ‘mi lasciano a casa a morire da solo’”.
Al sacrificio di medici e infermieri in prima linea ogni giorno Fabio Piscaglia dedica un ultimo pensiero “Ho visto tutti spendersi senza riserve, e non ho mai visto nessuno che abbia rinunciato a fare il doppio delle ore previste, dai medici agli infermieri fino agli operator sanitari, che anzi sono tra i più a contatto con i malati. Oggi nel reparto degli non-infettiCovid, un operatore sanitario mi ha detto che se qualche reparto che gestisse Covid+ avesse avuto bisogno, lui era desideroso di aiutare”.