Violenza sulle donne nei luoghi di lavoro: come reagire al mobbing e al bossing

Ci sono forme di violenza esplicite che fanno rumore mentre altre sono più silenti e subdole, tanto da passare quasi inosservate. Proprio queste ultime possono lasciare segni profondi che si rivelano solo quando hanno determinato importanti effetti su chi le subisce. Il mobbing e il bossing appartengono alla categoria di violenze che incidono sulla dignità e sull’equilibrio psicofisico di lavoratori e lavoratrici. In molti luoghi di lavoro, soprattutto per le donne, questo lento logoramento diventa un terreno minato che nessuno dovrebbe essere costretto a percorrere.

Il mobbing e il bossing non hanno bisogno di una porta sbattuta, di urla o scenate: possono manifestarsi con il non detto, con un incarico o un progetto assegnati e ritirati senza vere spiegazioni, in un ruolo svuotato nei fatti con la stessa naturalezza con cui si sposta una pratica da un tavolo all’altro. È una forma di violenza che procede per sottrazione, di spazio, di ruolo, di voce e che si esercita soprattutto verso chi, per costruzione sociale e culturale dovuta anche a divari e discriminazioni, dispone di meno libertà nel sottrarsi: le donne, appunto.

Perché le donne sono più colpite

Per capire perché questa forma di violenza colpisca le donne con tanta frequenza, bisogna riconoscere l’eredità culturale che continua a modellare le relazioni di lavoro: alle donne è chiesta una disponibilità che non ha nulla a che vedere con il contratto, ma che riguarda l’attitudine a essere accomodanti, adattabili, pronte a fare un passo indietro per non disturbare gli equilibri. Il dissenso femminile, quando si manifesta, non viene quasi mai interpretato come una legittima differenza di vedute, ma come un problema caratteriale o una mancanza di adeguatezza. Lo stesso tono che in un uomo viene letto come determinazione, in una donna diventa arroganza; la stessa fermezza viene definita spigolosità; la stessa richiesta di equità viene riscritta come pretesa. È come se la voce delle donne fosse sempre percepita come fuori registro: troppo forte quando dice la verità, troppo debole quando tace, troppo piena quando rivendica.

Dentro questo contesto il mobbing trova terreno fertile, perché non arriva con gesti eclatanti ma si insinua nelle piccole negazioni quotidiane, ripetute con una precisione quasi chirurgica. La riunione a cui non vieni invitata, il progetto sottratto senza spiegazioni, la mail non inoltrata, la battuta che dovrebbe farti sorridere anche quando ha il sapore della derisione: piccoli colpi che da soli sembrano nulla, ma che insieme costruiscono un clima.

A tutto questo può aggiungersi la forma più sottile di svilimento, quella che usa la galanteria come arma: la riunione in cui stai parlando con serietà e con responsabilità interrotta da qualcuno che sente l’urgenza di commentare il tuo aspetto, la tua eleganza, il tuo sorriso. Non sono complimenti innocui, sono interruzioni che riportano la donna dal piano professionale a quello estetico, ricordandole che secondo alcuni il suo corpo parla più del suo pensiero. In quell’istante non sei più la persona che porta un contributo: sei la “bella presenza” del tavolo. È una violenza gentile, che ti disarma col sorriso mentre ti toglie autorevolezza, e quando i presenti ridono o ignorano l’episodio capisci che non stai affrontando soltanto chi ti ha interrotta, ma un intero sistema che considera normale ridimensionarti.

Quando il mobbing diventa branco

Ma il mobbing non si limita mai alla relazione tra due persone: si allarga, si organizza, diventa branco. E nei luoghi di lavoro il branco non è fatto solo di uomini che difendono un potere maschile che li avvantaggia, ma spesso anche di donne che hanno interiorizzato la cultura del patriarcato e si mettono a disposizione del capo autoritario, trasformandosi in ancelle del potere maschile. Sono donne che cercano visibilità sostenendo chi comanda, amplificandone e critiche e i giudizi. E nel farlo diventano strumenti inconsapevoli, o perfettamente consapevoli, di quel sistema che opprime anche loro, cercando di isolare altre donne, ridicolizzarle, sminuirle. Il branco funziona così: moltiplica i gesti, amplifica le parole, trasforma un commento isolato in una verità condivisa. Una battuta ripetuta da molti diventa un marchio, una critica sussurrata diventa un’opinione diffusa. È nella coralità che il mobbing acquista corpo.

E oggi questo corpo ha un’estensione ulteriore, perché la violenza non rimane confinata dentro l’ufficio: continua sui social. Il mobbing digitale passa attraverso WhatsApp, Telegram, le chat parallele, ma anche attraverso Instagram, Facebook e persino LinkedIn. Accade quando un comportamento viene commentato nei gruppi interni e poi trasformato in una storia Instagram “allusiva”, visibile a mezzo ufficio; accade quando i tuoi post su Facebook vengono screenshottati, estrapolati, derisi con emoticon e commenti passivo-aggressivi. E accade soprattutto quando colleghi e colleghe smettono di guardare ciò che pubblichi con lo sguardo dell’interesse e iniziano a leggerlo con quello del giudizio, distorcendo ogni gesto, ogni parola, ogni immagine, per costruire una narrazione svalutante: su Instagram sei troppo vanitosa, su Facebook troppo polemica, su WhatsApp troppo permalosa. Notifiche, tracce, umiliazioni che possono essere rilanciate all’infinito.

Quando il bersaglio è una donna che non si adegua, la violenza psicologica assume forme ancora più taglienti e si traduce nella macchina del fango che lavora per sussurri più che per accuse: “È arrivista”, “È difficile”, “Si è irrigidita”, “Ha un carattere complicato”. Diffamazione leggera, apparentemente innocua, che però si incunea nelle percezioni collettive e trova sempre qualcuno pronto ad assecondarla, spesso non per convinzione ma per convenienza. Anche qui, il branco non ha bisogno di molti complici: gli basta il silenzio degli altri.

La violenza si insinua dove gli squilibri sono pù ampi

Le donne, nel lavoro, sono spesso più ricattabili non perché fragili, ma perché la società ha costruito per loro percorsi più stretti: contratti precari, carriere lente, stipendi più bassi, carichi di cura sproporzionati, reti di potere più sottili. Chi esercita mobbing conosce perfettamente questo squilibrio e lo usa come leva: “Con questo atteggiamento non ti rinnovo”, “Se non ti va bene c’è la fila”, “Ti conviene stare al tuo posto”. Sono frasi che agli uomini arrivano molto più raramente. A questa ricattabilità si aggiunge l’antico dispositivo della gratitudine obbligata: il sottotesto continuo che suggerisce che una donna dovrebbe essere riconoscente per essere stata assunta. È una forma di potere che non riconosce merito ma costruisce debito, trasformando un contratto tra pari in un favore personale, così che se chiedi diritti sei ingrata, se fai notare un’ingiustizia sei presuntuosa, se ti opponi a un sopruso diventi un’ingrata traditrice di chi “ti ha dato fiducia”.

Quando una donna arriva a denunciare, spesso è già ferita, perché ha resistito troppo, giustificato troppo, sopportato troppo. Quando arriva al sindacato porta con sé non solo un problema di lavoro, ma mesi, a volte anni, di erosione psicologica. Spesso ha già pronta la lettera di dimissioni, non perché vuole lasciare il lavoro ma perché convinta che restare significhi continuare a farsi male.

Per uscirne bisogna condividere e denunciare

Il mobbing e il bossing non sono conflitti né incomprensioni: sono violenza, una violenza che altera la postura e il respiro, che svuota la fiducia, che spegne lentamente mentre continui a funzionare in apparenza, e che non fa rumore ma produce crepe profonde. Se ne esce solo insieme: dirlo, denunciarlo, condividerlo. E poi servono strutture che proteggono davvero: leadership che ascoltano, procedure che tutelano, ambienti che accolgono, culture che non premiano la violenza ma il coraggio di chi parla.

Il punto, alla fine, è semplice e radicale: non possiamo chiedere alle donne di essere più forti, dobbiamo chiedere al potere di essere meno violento. Le donne non devono ringraziare per essere state assunte, devono essere rispettate perché lavorano. Non devono tacere per essere accettate, devono essere ascoltate per essere libere. Un luogo di lavoro sano non è quello dove nessuno protesta, ma quello dove nessuno ha paura di farlo.

Ma c’è un punto che nessuna violenza silenziosa può cancellare: le donne non sono sole. E quando il potere usa il silenzio come arma, noi possiamo rispondere con la voce; quando il potere isola, noi possiamo ricostruire legami; quando il potere divide, noi possiamo scegliere la sorellanza. È questo il varco attraverso cui si ricomincia a respirare: riscoprirsi alleate, riconoscersi nella fatica dell’altra, non mettere in discussione chi denuncia ma chi abusa, non abbassare lo sguardo ma alzarlo insieme.

Verità e solidarietà le armi contro mobbing e bossing

Si esce dal mobbing e dal bossing non con l’adattamento, ma con il coraggio della verità: la verità condivisa con chi ha la stessa ferita e la stessa determinazione a non farsene più infliggere altre. La verità non è mai sgarbo, mai capriccio, mai improprietà: è il primo atto di libertà.

E si esce grazie alla solidarietà, che non è mai una parola astratta ma un gesto concreto: una collega che ti crede, una dirigente che interviene, un delegato che apre una procedura, un’amica che ti ricorda chi sei davvero. Una comunità che si stringe intorno a te mentre togli alla violenza il suo potere più grande: quello di farti pensare di meritartela.

La vera rivoluzione, in fondo, è non adeguarsi. Non normalizzare l’abuso, non riderci sopra, non tollerarlo “per quieto vivere”. Perché ogni volta che una donna denuncia, non sta solo proteggendo sé stessa: sta aprendo una strada anche per chi verrà dopo, per chi ancora non trova la forza.

Se ne esce quando si sceglie di cambiare, quando si smette di voltarsi dall’altra parte, quando si decide che la dignità non è un dettaglio ma il fondamento di tutto. Perché un luogo di lavoro può essere anche questo: un posto dove nessuno teme di dire la verità, dove la libertà di parola non è un rischio ma un diritto, dove il coraggio non costa isolamento. Un posto dove le donne, tutte le donne, non devono sopravvivere, ma possono finalmente stare bene.

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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