Violenza donne, Paola Alberti: “A chi sa e vede chiediamo di non tacere, mia figlia si sarebbe potuta salvare”

Malta, 23 novembre 2025. REUTERS/Darrin Zammit Lupi

«Michela era una ragazza solare, piena di vita. Le piaceva viaggiare, studiare. Era autonoma e indipendente. Ogni giorno ci dava insegnamenti di vita e ora ci manca molto». A parlare è Paola Alberti, mamma di Michela Noli, la ragazza di 31 anni che il 15 maggio 2016 a Firenze è stata uccisa dall’ex marito, Mattia Di Teodoro, che subito dopo si è suicidato. «Lui non accettava la fine della relazione con Michela», hanno raccontato dopo il femminicidio. Come tutti gli uomini che ammazzano le donne: vogliono mantenere il controllo su di loro. Paola Alberti e suo marito Massimo da quel giorno raccontano la storia di loro figlia ai ragazzi e alle ragazze per evitare che vicende del genere si ripetano. Proprio come fa Gino Cecchettin, papà di Giulia, uccisa l’11 novembre 2023 da Filippo Turetta.

Il femminicidio

Michela è stata uccisa il 15 maggio di nove anni fa. Quel giorno era a casa di un amico, il suo ex marito era andato a cercarla, come faceva tutti i giorni. «Abbiamo  scoperto che aveva messo il gps nella macchina di Michela», racconta sua mamma, spiegando che quel giorno Di Teodoro aveva scritto a un suo amico di avere con sé un coltello. Poi era andato a casa di Michela, che viveva con i genitori. Le aveva detto di scendere per un ultimo saluto perchè voleva consegnarle una valigia con le sue cose. «Consigliai a mia figlia di non scendere – racconta Paola – ma lei disse che sarebbe tornata subito, aveva lasciato il cellulare sul letto. Ci salutammo per le scale, mi abbracciò come faceva sempre». Dalla finestra i genitori la videro salire in macchina con lui. Poi il nulla. Fino a un messaggio mandato da Di Teodoro all’amico alle 21.30 di sera: «L’ho fatto, addio». L’amico aveva poi chiamato le forze dell’ordine ma ormai era troppo tradi. I corpi di Michela e dell’assassino furono trovarti nell’auto parcheggiata lungo l’Arno. Più avanti si scoprì che l’uomo aveva più volte ripetuto agli amici e ai genitori la frase «l’ammazzo, poi mi uccido anche io». Tutti però avevano sottovalutato gli avvertimenti.

La petizione in Senato

Oggi Massimo e Paola lottano per una legge che punisca chi sa, ma tace e hanno presentato una petizione in Senato per cambiare la legge sull’omissione di soccorso, con una integrazione: «Chiunque venga a conoscenza dell’intento altrui di commettere un reato di violenza e abbia la consapevolezza che la persona sia realmente in grado di mettere in pratica quanto afferma, è obbligato a darne immediato avviso all’autorità o alla persona in pericolo». Il riferimento è ai messaggi espliciti che l’assassino di Michela aveva mandato agli amici. «Sarebbe stato sufficiente un messaggio a noi o a nostra figlia per evitare questa tragedia – ribadiscono i genitori – Lei quella sera non sarebbe scesa per parlare con lui».

L’inizio delle violenze

Michela era hostess di terra all’aeroporto di Firenze, aveva conosciuto Mattia Di Teodoro nel 2009. Dopo due anni erano andati a vivere insieme, dopo tre anni si erano sposati, lasciandosi un anno e mezzo dopo. Da quel momento la storia aveva preso una piega diversa, era iniziato l’iter che accomuna tutte le storie di violenze, in cui si ripetono gli stessi comportamenti e compaiono gli stessi segnali che le donne, le ragazze dovrebbero conoscere. «Dopo la separazione, all’inizio, lui aveva cercato di riconquistarla. Poi aveva iniziato a mandare messaggi sempre più frequenti, messaggi che a un certo punto erano diventati aggressivi, tanto che Michela voleva denunciarlo. Aveva cambiato il cellulare, ne aveva comprato un altro, l’aveva messo in carica per fare il passaggio dei dati».

Non tacere

«Quello che chiediamo è di non tacere, non girarsi dall’altra parte, ma di parlare con qualcuno, di chiedere aiuto», prosegue Paola Alberti. Il messaggio che vogliono dare i genitori di Michela è tanto semplice quanto complicato: «Ragazze e ragazzi dovete parlare, raccontare», dice Paola Alberti, perchè spesso chi si trova in una situazione di violenza non riesce a cogliere i segnali di pericolo. «I familiari a volte fanno più fatica, alcuni aspetti possono sfuggire, dall’esterno le persone possono visualizzare meglio». Una consapevolezza che deve arrivare anche ai più giovani e deve essere insegnata a scuola. E questo vale per tutte le forme di violenza, anche per il bullismo. «Bisogna parlarne agli insegnanti, a un adulto di riferimento», sottolinea la madre di Michela.

La Lega Nazionale dilettanti calcio

Paola e Massimo sono i volti e le voci della campagna “Fare squadra contro la violenza”, ideata dalla giornalista Gaia Simonetti e sostenuta dall’area sociale della Lega nazionale dilettanti di calcio, campagna partita l’11 novembre da Sesto Fiorentino, alle porte di Firenze. “E’ geloso perché mi vuole bene”, “è mia e non sarà di nessun altro”: sono alcune delle frasi della campagna. «Il calcio deve fare la sua parte nella lotta alla violenza di genere – afferma Luca De Simoni, coordinatore area responsabilità sociale della Lega dilettanti – ricordando che la violenza non è solo fisica, ma anche psicologica e verbale. Penso alle vessazioni che spesso sentiamo nei cori agli stadi rivolte alle atlete, ma anche alle spettatrici e in uno sport a predominanza maschile dobbiamo farci portatori dei giusti messaggi».

L’educazione affettiva

Parlare con i giovani è essenziale: tutto deve partire da loro, dalle scuole, dagli oratori, dalle attività sportive. Qui si inserisce l’importanza dell’educazione all’affettività, alle emozioni, «essenziale perché se una persona riconosce le proprie emozioni, può trasformarle in modo costruttivo», dice Paola Alberti, soprattutto nel mondo di oggi che va così veloce. Su questo i familiari delle vittime e chi si occupa di violenza di genere sono tutti d’accordo. Ricordiamo il messaggio di Gino Cecchettin, in commissione femminicido al Senato: «So bene che ci sono paure, resistenze e incomprensioni, ma vi assicuro che l’educazione affettiva non è un pericolo è una protezione, non toglie nulla a nessuno, ma aggiunge qualcosa a tutti: consapevolezza, rispetto e umanità».

Paola e Massimo dopo la morte della loro figlia hanno creato il progetto “per Michela” per costruire qualcosa di positivo e non rinchiudersi in loro stessi. Sono entrambi musicisti, scrivono canzoni e la mamma dipinge quadri con il volto della figlia. Il 26 ottobre Michela avrebbe compiuto 40 anni. Qualche giorno dopo la mamma, una mattina, andando al cimitero a cambiare i fiori, ha trovato sulla tomba un giglio con un nastro rosso, con sopra una scritta: la tua amica del cuore. Perchè il tempo passa, ma nessuno dimentica.

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Qui il link per ascoltare il reportage di Livia Zancaner su Radio24

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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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