
Niente come la piaga della violenza contro le donne offre uno spaccato doloroso ed eloquente sulle contraddizioni profonde che caratterizzano il nostro ordinamento che, sulla carta, a partire dal dato costituzionale, garantisce tutela piena e inconfutabile a ogni vittima di abuso, rifiutando e sanzionando ogni forma di discriminazione basata sul genere.
Se il marziano di Flaiano dovesse fondare il suo giudizio sulla condizione delle donne nel nostro Paese basandosi esclusivamente sulla lettura delle norme vigenti, il parere non potrebbe essere che lusinghiero, tanto chiaro e completo risulta il parametro formale. Peccato però che basterebbe un fugace bagno di realtà per dimostrare la fallacia della valutazione.
Non occorre inoltrarsi in scenari sociali retrogradi o degradati per mettere in luce la distanza enorme tra diritto scritto e vivente, basta soffermarsi sulla motivazione di alcune sentenze, anche recentissime, note alle cronache, che argomentano fino quasi a giustificare violenze fisiche ai danni di donne colpevoli, per esempio, di aver comunicato “brutalmente” la volontà di chiudere il matrimonio o di essere consapevoli, perché non più vergini, dei pericoli derivanti dall’appartarsi con un uomo.
Ogni donna è libera di decidere per sé stessa
Senza entrare nel merito di pronunce già ampiamente commentate e (forse non a sufficienza) stigmatizzate mi preme qui chiarire la prospettiva costituzionale che pone al centro la dignità e l’autodeterminazione di ogni persona, a prescindere dal genere. Nello specifico, dovrebbe essere chiaro che la violenza non è contemplata come manifestazione legittima di risposta a stati d’animo di esasperazione o frustrazione determinati da scelte di autodeterminazione altrui. Troppo spesso, in casi di violenza contro le donne nell’ambito familiare, l’attenzione della narrazione giudiziaria è posta sul comportamento della donna che non dovrebbe invece trovare spazio, anche laddove la vittima non sia stata cauta, prudente, rispettosa, sensibile.
In sostanza, presupposto imprescindibile in ogni caso dovrebbe essere il riconoscimento della piena autodeterminazione di una donna al netto di ogni espressione di tipo contestuale o morale volta ad attutire in qualche modo la responsabilità di chi arma la propria mano e picchia, ferisce, uccide. Il presunto rapporto di causa-effetto tra decisione di interrompere il rapporto, tradimento, ribellione e violenza non può essere contemplato né ammesso. Sembra una banalità riaffermare che ogni donna è libera di decidere per sé stessa, anche al di fuori dagli schemi ordinari ma nel rispetto del diritto vigente, senza dover temere di essere “punita” per le proprie scelte libere, addirittura con la violenza.
Le condanne Ue all’Italia
Di recente (e non è la prima volta) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per violazioni degli articoli 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, rispettivamente, vietano i trattamenti inumani o degradanti che ledono la dignità umana e impongono il rispetto della vita privata e familiare (Scuderoni c. Italia, ricorso n. 6045/24, sentenza del 23 settembre 2025).
Già nel 2021 la stessa corte internazionale aveva richiamato le autorità giudiziarie nazionali a evitare di riportare stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, sminuendo la violenza di genere e sottoponendo le donne a una vittimizzazione secondaria tramite il ricorso a un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante (così sent. CEDU 27.5.21, J.L. c/Italia, ricorso n. 5671/16). Ma questa sollecitazione non è stata recepita da tutti perché, evidentemente, c’è una resistenza culturale inconscia che rende ciechi di fronte al carattere offensivo e discriminatorio di alcune argomentazioni che affondano le radici nella convinzione che le donne debbano aderire a schemi di comportamento che le terrebbero al sicuro dai pericoli.
Puntare sulla formazione degli operatori del diritto
L’unica via di uscita efficace è, a mio parere, una massiccia e capillare campagna di formazione obbligatoria specialistica rivolta a tutti gli operatori del diritto (magistrati, avvocati, forze dell’ordine etc.) che si occupano di violenza contro le donne. Ed ecco che ci ritroviamo al punto iniziale della patologica distanza tra il diritto formale e vivente, perché corsi di educazione e sensibilizzazione sono già prescritti sebbene erogati in modo frammentario e disorganico, sicuramente non sufficiente a sradicare definitivamente interpretazioni distorte.
Occorre uno sforzo di monitoraggio, controllo e riscontro che renda effettivo e non meramente burocratico il percorso formativo in un ambito su cui tutto è già stato detto e scritto ma, chiaramente, non compreso fino a fondo né assimilato. L’illuminante e ancora attuale “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti fu pubblicato per la prima volta nel 1973 e seguito da innumerevoli contributi stratificati nel tempo per formare una bibliografia solida ma non abbastanza compulsata.
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