
Le leggi che regolano la riproduzione non parlano solo di medicina o biologia: raccontano sistemi di valori, priorità politiche e rapporti di potere. Ne è convinta Anna Louie Sussman, giornalista statunitense che da anni indaga le intersezioni tra diritti umani, giustizia sociale ed economia. Dopo gli esordi in Reuters e al Wall Street Journal, dove si occupava di economia e finanza, ha scelto di esplorare come le scelte sulla genitorialità riflettano le disuguaglianze del nostro tempo.
In un’intervista ad AlleyOop, in occasione della sua partecipazione al Festival di Internazionale a Ferrara, Sussman ha raccontato come il suo interesse investigativo su questo tema sia nato durante un master in diritti umani, quando ha iniziato a studiare come i diversi Paesi regolano l’accesso alla genitorialità. «Il tempo è un fattore cruciale”, spiega. «Una legge può cambiare improvvisamente, trasformando i progetti di vita delle persone. È un ambito dove si vede con chiarezza quanto la politica entri nelle nostre scelte più intime».
Infertilità sociale: quando la legge crea ostacoli
Uno dei concetti chiave del suo lavoro è quello di infertilità sociale, vale a dire la condizione di chi, pur non avendo problemi biologici, non può avere figli a causa di barriere legali, economiche o culturali. Ne fanno parte single, coppie omosessuali e individui che vivono in Paesi dove la riproduzione assistita è accessibile solo a determinate categorie o a chi può permettersela. Nel 2023 la American Society for Reproductive Medicine ha ampliato la definizione di infertilità includendo anche i casi in cui è necessario l’uso di gameti o embrioni donati.
«È stato un passo importante», osserva Sussman, «perché riconosce che la medicina riproduttiva non risponde solo a limiti biologici, ma anche a condizioni sociali». Questa prospettiva solleva domande cruciali: avere un figlio è un diritto o un privilegio? E chi riesce ad averne uno, trova davvero garantiti istruzione, salute e condizioni di crescita dignitose? Per Sussman, sono questi gli interrogativi da cui dovrebbe ripartire il dibattito pubblico, perché mettono in luce le disuguaglianze spesso invisibili che attraversano la società.
Cura, lavoro e disuguaglianze di genere
Al centro delle analisi di Sussman c’è il tema della “riproduzione sociale”, concetto chiave della teoria femminista che indica tutto il lavoro necessario a mantenere e far crescere i figli, ma anche a prendersi cura degli anziani, sostenere le relazioni familiari e comunitarie. È un lavoro essenziale, ma raramente riconosciuto o misurato nelle statistiche economiche. Una delle pietre angolari del pensiero che Sussman richiama è il saggio di Marilyn Waring, If women counted: a new feminist economics (1988).
Waring sosteneva che “quando le donne contano”, cioè quando il lavoro di cura viene riconosciuto come elemento economico e politico, cambia la natura stessa dell’economia. Non si tratta solo di aggiungere un valore numerico al lavoro non retribuito, ma di rivedere le priorità sociali e di ridefinire cosa consideriamo “produttivo”.
Sussman riprende e aggiorna questa prospettiva, mostrando come la sottovalutazione del lavoro di cura continui a generare nuove forme di disuguaglianza. L’innovazione tecnologica, l’economia digitale e la precarietà del lavoro hanno reso ancora più fragile l’equilibrio tra vita privata e professionale. «Oggi» osserva «le donne sono spinte a garantire produttività e autonomia, ma le strutture di sostegno alla genitorialità restano inadeguate. È una contraddizione che produce solitudine e colpa, e che dovrebbe invece essere riconosciuta come questione collettiva».
Un corpo che scrive: l’esperienza personale come lente
Raccontare queste esperienze, per lei, non è un esercizio imparziale. «Il giornalismo non è mai neutro» ricorda. «Raccontare la riproduzione significa parlare di potere: di chi lo esercita e di chi ne è escluso». La sua stessa pratica giornalistica diventa allora una forma di testimonianza politica: verificare i fatti, ma anche amplificare storie che spesso restano ai margini, coe quelle delle donne, delle coppie non conformi, delle persone che non rientrano nei modelli dominanti di famiglia.
La sua stessa esperienza personale con la fecondazione assistita l’ha aiutata a comprendere meglio il peso psicologico di questi percorsi, creando spazi di fiducia con le persone che intervista. Ma occuparsi di questi temi significa anche esporsi: dai rischi di polarizzazione politica alle minacce online, fino alla difficoltà di non restare chiusi nella propria bolla informativa.
«Quando scrivo di fertilità», spiega, «non parlo solo di statistiche o di politiche sanitarie. Parlo di tempo sospeso, di speranza, di dolore e di fiducia. È lì che il giornalismo deve trovare la propria voce». La dimensione personale ha ridefinito il suo modo di fare inchiesta: accanto ai dati e alle leggi, Sussman intreccia le biografie, restituendo la realtà nella sua complessità. «Ogni racconto individuale apre una finestra su un sistema più grande», dice. «Rendere visibili queste connessioni è la parte più politica del mio lavoro».
Le nuove generazioni tra precarietà e futuro
Guardando al contesto globale, Sussman osserva che non esiste un percorso lineare in materia di diritti riproduttivi: i Paesi oscillano tra aperture e restrizioni, tra avanzamenti legislativi e improvvisi arretramenti. Intanto le nuove generazioni, strette tra precarietà economica e instabilità sociale, rimandano o rinunciano a formare una famiglia. Le politiche pro-natalità, spesso concepite da chi è cresciuto in contesti più stabili, risultano distanti da questa realtà. Inoltre, sottolinea Sussman, la voce maschile nel dibattito sulla fertilità resta quasi assente: raramente si parla del desiderio di paternità o delle difficoltà emotive degli uomini, nonostante affrontino anch’essi ostacoli specifici, dal calo della qualità spermatica alle pressioni sociali sulla virilità.
Per Sussman, quindi, riflettere sulla riproduzione significa immaginare un nuovo patto sociale. Se la possibilità di avere figli dipende sempre più da fattori economici e politici, allora la genitorialità non può essere considerata solo una scelta privata. «Crescere un bambino», afferma, «richiede reti di sostegno, investimenti pubblici e il riconoscimento del lavoro di cura come parte integrante dell’economia». In questo senso, la scarsa valorizzazione dei giovani e delle diversità rischia di tradursi in un impoverimento collettivo. Al contrario, includere nuove forme di famiglia e genitorialità può diventare una risorsa per costruire società più giuste e sostenibili.
«La vera domanda», conclude, “non è se il cambiamento arriverà, ma se le istituzioni saranno capaci di accompagnarlo con coraggio, trasformandolo in una forza collettiva».
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